Caporalato un lavoro da quasi schiavi
Le tre figure
A qualificare la posizione del soggetto passivo è la sua condizione di vulnerabilità e di debolezza “contrattuale”. Nei contesti in cui si diffonde il caporalato, infatti, i lavoratori si trovano in una peculiare situazione di debolezza economica, sociale e culturale che persiste ininterrottamente dalla fase iniziale del rapporto fino a quella conclusiva. Si tratta, a ben vedere, di una vera e propria «subordinazione esistenziale» che spesso si concretizza anche con l’uso della violenza e della minaccia da parte del caporale.
Il datore di lavoro interponente, invece, è colui che utilizza materialmente la prestazione dei lavoratori, sottoponendo gli stessi a condizioni di lavoro di tipo para-schiavistico, sfruttandoli e sottopagandoli, con totale dispregio delle norme poste a tutela dei lavoratori. Il datore di lavoro che ricorre al caporalato consegue rilevanti risparmi di spesa, non solo in termini di retribuzione, ma anche grazie al risparmio ottenuto dalla mancata osservanza delle norme di sicurezza e dall’evasione della contribuzione previdenziale. Ciò crea inevitabilmente una “concorrenza sleale” tra gli imprenditori che aderiscono a tale forma illegale di occupazione, e quelli che, al contrario, svolgono la propria attività entro i binari della legalità.
Infine, al vertice del rapporto trilaterale si pone il caporale. La sua figura è del tutto peculiare: ed invero, pur svolgendo la funzione di intermediario, questi si trova in una posizione più vicina ai lavoratori, che lui stesso sfrutta, rispetto a quella del datore di lavoro. Del resto, già l’utilizzo della denominazione di “caporale”, mutuata dalla terminologia militare, è indicativo della significativa vicinanza tra l’intermediario e il lavoratore. Nel fenomeno che qui interessa, viene comunemente definito come tale quel soggetto – spesso membro di un’organizzazione criminale – che recluta manodopera irregolare, pretendendo quale compenso dell’opera di intermediazione, una percentuale che solitamente raggiunge il 50-60% della retribuzione giornaliera corrisposta al lavoratore abusivo, già pagato “in nero” e in misura largamente inferiore rispetto a quanto previsto dagli accordi sindacali.
si crea in questo modo una concorrenza sleale nei confronti degli altri imprenditori
costretti ad accettare condizioni lavorative degradanti, in cambio di un basso compenso
Il caporalato in agricoltura
Nonostante si tratti di un fenomeno dinamico e multiforme, caratterizzato da una spiccata capacità evolutiva e di adattamento ai diversi contesti, il luogo tradizionale del caporalato è il settore agricolo. Il fatto che tale ambito sia stato un vero e proprio “terreno fertile” per la nascita e per il suo sviluppo non è casuale: sono, infatti, le caratteristiche proprie del lavoro nel settore agricolo ad aver svolto la funzione di catalizzatore. In particolare, le diverse dinamiche occupazionali, l’andamento altalenante e stagionale del ciclo produttivo, la scarsa specializzazione della prestazione lavorativa richiesta, hanno senza dubbio favorito la proliferazione della «maledizione del caporalato».
In tale settore, l’esigenza principale del datore di lavoro è da sempre stata quella di trovare, nel più breve tempo possibile, «braccia» in grado di lavorare a basso costo, per un numero elevato di ore, per un periodo limitato di tempo e in condizioni particolarmente gravose. In risposta ad una richiesta del genere, coloro che avevano maggiormente necessità di guadagno hanno iniziato a radunare sempre più persone, tutte caratterizzate dalla stessa impellente esigenza di avere un’alternativa alla disoccupazione.
Proprio all’interno di queste categorie omogenee di soggetti, tutti contraddistinti dal medesimo stato di bisogno, si sono differenziati i caporali. La loro funzione è da sempre stata quella di fungere da intermediari tra l’offerta dei datori di lavoro e la domanda di altri soggetti versanti in un grave stato di necessità. Tale forma di intermediazione (distorta) è stata poi senza dubbio favorita dalla natura generica della prestazione che contraddistingue la manovalanza agricola.
Non è mai stato, infatti, importante per i caporali reclutare soggetti in grado di svolgere una precisa e determinata attività poiché la prestazione tipica del settore agricolo non richiede alcun tipo di specializzazione o di capacità tecnico-professionale; ciò che è sempre stato necessario è che gli “intermediari di fatto” trovassero un ingente numero di soggetti disposti ad accettare condizioni lavorative degradanti e per un basso compenso. Per tale ragione, fin dal primo momento, il fenomeno del caporalato ha riguardato, sotto il profilo dei soggetti passivi, le fasce più deboli della popolazione: prima cittadini italiani spesso provenienti dal sud Italia, poi stranieri immigrati. Quest’ultima categoria è oggi diventata quella maggiormente colpita dal fenomeno del caporalato – e non solo nel settore agricolo – a causa della progressiva e ormai strutturale carenza di manodopera italiana.
La figura del caporale
Il comune denominatore a tutte queste molteplici e diverse situazioni deve, in ogni caso, essere rinvenuto nella costante sottomissione cui sono sottoposti i lavoratori reclutati dai caporali. E proprio tale subordinazione psico-fisica comporta che gli intermediari mantengano il “dominio” sui lavoratori, oltre che con violenza fisica, con la minaccia di denunciare la situazione di irregolarità di questi ultimi, i quali acconsentono così ad essere mera merce di scambio da cui, tanto il datore di lavoro, quanto i caporali possono trarre vantaggio. Attraverso il caporalato si è, perciò, venuto a creare un vero e proprio “procedimento di reificazione” della persona, in quanto l’assenza di impieghi alternativi ha costretto – e costringe tuttora – i lavoratori ad accettare la propria riduzione ad una res, una “cosa”, in cambio di una prospettiva di sopravvivenza.
L’evoluzione criminale del fenomeno
Con il passare del tempo il fenomeno così descritto si è sempre più inserito nel contesto della criminalità organizzata (anche internazionale). Nel tempo, i caporali, da singoli lavoratori dotati di una personalità maggiormente aggressiva rispetto agli altri, sono stati sostituiti o dai caporali c.d. collettivi (per lo più cooperative) o da soggetti appartenenti a veri e propri sodalizi criminali. Si è così venuta a creare una crescente contrapposizione tra la condizione di totale isolamento nelle campagne in cui i lavoratori si trovano a lavorare – ma spesso anche a vivere per tutta la durata del ciclo produttivo – e l’organizzazione criminale diffusa anche a livello internazionale che nella maggior parte dei casi è perfettamente pianificata e gerarchicamente ordinata
La legislazione contro il caporalato
Nell’ultimo decennio, il Parlamento ha approvato alcune modifiche del Codice penale, per sanzionare il caporalato. Attualmente la legge punisce con la pena della reclusione da uno a sei anni, e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, sia i “caporali” – che reclutano manodopera – sia coloro che utilizzano, assumono o impiegano lavoratori in condizioni di sfruttamento, approfittando del loro stato di bisogno. Perché il reato sia considerato tale, è sufficiente che datori di lavoro e caporali sottopongano i lavoratori reclutati e assunti a condizioni di sfruttamento lavorativo, anche senza che intervenga l’uso della violenza, della minaccia o dell’intimidazione: la presenza di queste ultime costituisce, ovviamente, un’aggravante.
La legge (l. 199 del 29 ottobre 2016) ha, inoltre, determinato che la situazione di “sfruttamento” si determina qualora il rapporto di lavoro sia caratterizzato da: 1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.
Costituiscono, infine, un’aggravante specifica che comporta l'aumento della pena da un terzo alla metà il fatto che: 1) il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre; 2) uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa; 3) l'aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.]
Dall’agricoltura alle piattaforme: gli sviluppi del caporalato nella società attuale
Se osserviamo il fenomeno nella sua dimensione sociale, l’analisi dei dati dimostra una capillare e crescente diffusione del caporalato tradizionale in tutto il territorio nazionale. Ma non si tratta soltanto di una questione quantitativa. Oggi il caporalato ha assunto un nuovo volto, investendo anche altri settori produttivi, oltre a quello agricolo, come l’edilizia, la logistica, anche in forme cosiddette “grigie”, dove l’elemento costrittivo e ricattatorio nei confronti del lavoratore è meno evidente e più subdolo. In questo ambito sempre più rientrano le forme del caporalato digitale, che si presenta attraverso i canali tecnologici, primi tra tutti le piattaforme (si pensi al fenomeno dei riders). Il rischio è che tale evoluzione espansiva possa dar vita ad una diffusa «economia sommersa», regolata esclusivamente dai rapporti di forza e dal ricatto esistenziale (o lavori da semi-schiavo, o non lavori per niente)
Riferimenti bibliografici
- Chiaromonte W. (2019), ““Cercavamo braccia, sono arrivati uomini”. Il lavoro dei migranti in agricoltura fra sfruttamento e istanze di tutela”, Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 321-356.
- De Santis G. (2019), “Caporalato e sfruttamento di lavoro. Storia e analisi della fattispecie delittuosa vigente”, in G. De Santis, S. M. Corso, F. Delvecchio (a cura di), Studi sul caporalato, 42.
- Di Lecce M. (1980), “Note sui profili penali della c.d. “economia sommersa”, Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale, IV, 91 e ss.
- Giuliani A. (2015), “I reati in materia di “caporalato”, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, Jus Quid, 18 (accessibile a questo link: https://discrimen.it/wp-content/uploads/Giuliani-I-reati-in-materia-di-caporalato-intermediazione-illecita-e-sfruttamento-del-lavoro.pdf).
- Leogrande L. (2008), Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud, Milano, Mondadori Editore.
- Lombardo M. (2013), “Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, Digesto delle Discipline Penalistiche, Agg. VII, Torino, 358.
- Schiuma D. (2015), “Il caporalato in agricoltura tra modelli nazionali e nuovo approccio europeo per la protezione dei lavoratori immigrati”, Rivista di diritto agrario, I, pt. 1, 87-115.
Caporalato un lavoro da quasi schiavi
Aggiornamenti
a cura della redazione di Civitas
Cresce il caporalato: nei campi oltre un quarto dei lavoratori è irregolare
29 novembre 2022 - il Sole 24Ore - Micaela Cappellin
Secondo il rapporto Agromafie della Flai-Cgil, in Italia lavorano 230mila braccianti in nero. Ogni mese riceveva in nero 700 euro, ma una parte era costretto a restituirli al caporale per pagare l’affitto di una casa in condivisione con altri braccianti. Poi, da un giorno con l’altro, è stato sostituito con un ragazzo che per lavorare nei campi prendeva meno di tre euro all’ora. E da quel momento vive in una casa di accoglienza. Mezzogiorno d’Italia? No, questa storia è ambientata a Pordenone, profondo Nord. Ed è una delle tante storie di disperazione e illegalità che la Flai-Cgil, attraverso l’Osservatorio Placido Rizzotto, ha raccolto nel suo rapporto Agromafie e caporalato. Giunto ormai alla sue sesta edizione, il quaderno del sindacato dei braccianti quest’anno ha contato 230mila presenze irregolari nei campi italiani. Significa che più di un bracciante su quattro, nel nostro Paese, lavora ancora in nero. E questo nonostante dal 2016 l’Italia abbia una legge per combattere il caporalato - la 199 - che a quanto pare in larga parte resta ancora inapplicata. Di questi 230mila lavoratori, 55mila sono donne e in maggioranza sono stranieri. Il lavoro agricolo subordinato non regolare è radicato in Puglia, Sicilia, Campania, Calabria e Lazio con tassi di oltre il 40%, ma nel Centro-Nord le percentuali sono ormai tra il 20 e il 30 per cento. (continua a leggere)
Dottoranda di ricerca in Lavoro, Sviluppo e Innovazione presso la Fondazione Marco Biagi nonché Cultrice della materia di Diritto processuale penale e in Diritto processuale penale delle società presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Modena e Reggio Emilia. È, altresì, esperta incaricata presso la Commissione di Certificazione della Fondazione Marco Biagi, all’interno della quale si occupa dei contratti di appalto. I suoi interessi di ricerca riguardano, principalmente, il reato di caporalato e i relativi strumenti di contrasto, nonché i riflessi applicativi del Dlgs. 231/2001. (vedi su Linkedin)