Fondamento della società democratica: gli articoli 1 e 3
Art. L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro.
Questa disposizione ha dato luogo, soprattutto nei primi anni dopo la sua entrata in vigore (1 gennaio 1948), ad un vasto dibattito, che da tempo ha perso di intensità, senza che, certamente, ne perdesse il precetto stesso, che anzi riacquista piena attualità proprio nei momenti di crisi economica, come l’attuale, in cui il lavoro appare direttamente minacciato.
Non c’è modo qui di riprendere quel dibattito, che ha riguardato anche problemi relativi alla forma dello Stato, ma al di là di ciò e per quanto più direttamente ci riguarda «il “fondamento” sul lavoro sta ad indicare un valore che la Repubblica attribuisce all’apporto del lavoro di ciascuno […] in luogo di altri fattori in passato dominanti, come la nobiltà di nascita o la ricchezza, ai fini del ruolo sociale dell’individuo» (Onida 2004, p. 81).
Questa contrapposizione agli assetti sociali del passato, che si sostanziavano ad esempio nella limitazione alla nobiltà della partecipazione al governo del paese (qualunque dimensione e consistenza il paese avesse) ovvero, in epoca più prossima, nella limitazione del diritto di voto per censo, segna un elemento davvero caratterizzante della Repubblica.
Dunque, il ruolo sociale dell’individuo, o meglio del cittadino, è definito dal lavoro che svolge, naturalmente si intende lavoro in senso molto ampio: dipendente, autonomo, professionale, pubblico, privato, imprenditoriale o nei modi in cui il progresso potrà modificarlo, come si avrà modo di chiarire a proposito di un’ altra disposizione della Costituzione (art. 35 cost.). Ma non solo di questo si tratta, il lavoro è “fondamento” della Repubblica perché individua i soggetti portatori del valore di progressiva attuazione della Società democratica ed egualitaria in senso sostanziale.
la Repubblica riconosce un valore al lavoro di ciascuno di noi
la Repubblica intende assicurare il pieno sviluppo della persona umana
Verso un’eguaglianza sostanziale
Passiamo infatti all’ art. 3.
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
La prima parte richiama il principio storico, affermato a partire dalle grandi rivoluzioni del sec. XVIII, della eguaglianza formale tra tutti i cittadini, ma è sul secondo e sulla sua formulazione che è importante richiamare l’attenzione. Qui si proclama il principio dinamico della rimozione degli ostacoli che, essendo causa di una limitazione di fatto della libertà e dell’eguaglianza dei cittadini, hanno per effetto di impedire il pieno sviluppo della persona umana e – secondo fenomeno impedito – l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Ricostruiamo allora così il dettato dell’art. 3 secondo comma: debbono essere rimossi gli ostacoli alla eguaglianza di fatto (quella di diritto è garantita dal c. 1, ma non basta a garantire quella sostanziale) di tutti (cittadini non ulteriormente qualificati) affinché sia garantito il pieno sviluppo della persona umana, di chiunque si parli, e sia garantita altresì l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori.
Perché in questo punto si richiamano solo i lavoratori? Perché secondo la nostra Costituzione sono i lavoratori i cittadini ai quali gli ostacoli di fatto potrebbero impedire di partecipare a tutti gli aspetti della società. Insomma: l’impegno della Repubblica è la rimozione degli ostacoli sostanziali alla eguaglianza di fatto, affinché a tutti i cittadini, senza distinzione, sia garantito «il pieno sviluppo della persona umana» e in particolare ai lavoratori sia garantita l’effettiva partecipazione «all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»
Un’immagine della società: il lavoro e la rendita
Quale è dunque l’immagine di società alla quale questa disposizione si ispira? Una società dicotomizzata, divisa in due, nella quale i lavoratori rappresentano la parte più esposta ad essere ostacolata dalla disuguaglianza di fatto alla effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Gli altri sono i “cittadini non lavoratori”, che in questo caso non sono i disoccupati bensì i cittadini che traggono le risorse necessarie per vivere dalla proprietà e non dal lavoro, e che come tali sono considerati dalla Carta non (o meno) esposti agli ostacoli in questione.
I lavoratori dunque oltre che la parte (tendenzialmente) debole e (tendenzialmente) meritevole della società, ne costituiscono anche quella cui è affidato un compito di trasformazione sociale fondamentale.
Che cosa è cambiato nel tempo
Anche su questo piano occorre registrare cambiamenti e permanenze. Proprio in ragione della già richiamata più complessa articolazione della società nei settanta e passa anni trascorsi, anche il compito di trasformazione sociale risulta oggi articolato su una pluralità di protagonisti, ma egualmente la norma conserva il suo valore e direi la sua forza, perlomeno nell’escludere che “contro” il lavoro possano avere corso fenomeni di trasformazione sociale fondamentale. Infine, ma certo non meno importante, detto «fondamento sul lavoro» rappresenta il criterio interpretativo nella lettura e nella applicazione di tutte le norme costituzionali.
Il valore universale del lavoro
art. 35, primo comma « La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni»
Collegandosi idealmente con quanto affermato nei principi generali, qui si sancisce il valore universale del lavoro, in tutte le sue forme ed applicazioni. Questa è una affermazione tipicamente condizionata dal contesto storico e istituzionale in cui è inserita, e ci offre l’occasione di riflettere brevemente sullo strumento dell’interpretazione storicamente collocata. La formula analoga Il lavoro è tutelato in tutte le sue forme organizzative ed esecutive, intellettuali, tecniche e manuali, contenuta nell’art. 2060 del cod. civ. del 1942 pretendeva di essere la traduzione in norma della ideologia corporativa. Tutti: gli imprenditori e i loro collaboratori (così chiamati i dipendenti), i dipendenti pubblici e i tirocinanti, gli imprenditori agricoli i mezzadri e i coloni, i lavoratori autonomi e i professionisti intellettuali, i lavoratori domestici. Tutti quanti lavoratori e tutti subordinati al programma di potenza della nazione, nel che si sostanzia gran parte dell’ideologia del fascismo.
Lungimiranza del dettato costituzionale
Nella Costituzione, parole anche rassomiglianti acquistano il diverso significato che ho richiamato sopra, di valore universale cha fa da cornice alle successive previsioni – gli articoli da 36 a 39 - dedicate senza dubbio ai lavoratori dipendenti. La norma appare anche singolarmente lungimirante quando, settanta e passa anni dopo, il mondo del lavoro si è estremamente articolato rendendo sempre più necessaria una tutela che prescinda da caratteristiche formali, come quelle che distinguono subordinati, autonomi, collaboratori a progetto o quant’altro la fantasia (perversa) si inventi, in molti casi con il risultato (se non con il fine) di abbassare le garanzie dei lavoratori.
Il diritto ad una “retribuzione proporzionata”
L’articolo 36 primo comma della Carta recita così: Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sè e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
Ci troviamo qui di fronte alla sintesi di due principi: quello mercantile della proporzione e quello solidaristico della sufficienza, quest’ultimo colorato della socialità specifica del riferimento alla famiglia. Un esempio mirabile, dei tanti che si incontrano nel testo costituzionale, dell’alto compromesso politico tra le componenti dell’antifascismo, della Resistenza e della neonata Repubblica: l’ideale liberale del mercato, quello social-comunista della solidarietà, estesa dai cattolici alla famiglia.
Questa previsione non si è tradotta, come in altri ordinamenti, in una legislazione sul salario minimo - a tutt’oggi argomento di discussione e divaricazione tra le forze politiche - ma non è stata priva di effetti, grazie ad una giurisprudenza che ne ha fatto un uso immediatamente precettivo, consentendo così anche a lavoratori rimasti esclusi dalla applicazione dei contratti collettivi (a causa della mancata attuazione della seconda parte dell’art. 39, come si vedrà trattando dei sindacati e del loro ruolo) di raggiungere un salario decente.
Queste decisioni dei giudici non hanno impedito tuttavia, complice una evoluzione particolarmente penalizzante del mercato del lavoro e della legislazione in proposito, che nei decenni più recenti si formassero ampi stati di “lavoratori poveri”: cittadini pur occupati che non riescono a conseguire proprio quella che è la finalità indicata dal testo costituzionale: le risorse per una esistenza libera e dignitosa.
Ma esiste un diritto del lavoratore al riposo previsto dalla Costituzione?
Sì, esiste. Nei commi successivi, l’articolo 36 prende in considerazione tre scansioni temporali: la giornata, la settimana e l’anno. Art. 36.2. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Art. 36.3. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi. L’orario di lavoro è tradizionalmente affidato alla determinazione dei contratti collettivi, se non anche del contratto individuale. La Costituzione però vuole che la durata massima della giornata lavorativa sia stabilita non da contratti variabili, ma dalla legge, quindi da una norma generale a validità universale, con poche e limitate eccezioni. E questo proprio al fine di assicurare la tutela della integrità fisica del lavoratore, la sua libertà e la sua dignità, che possono essere compromesse giorno per giorno, da un orario eccessivamente protratto.
Il limite legale di otto ore giornaliere prolungabili di due, che era già esistente in Italia all’ entrata in vigore della Costituzione in virtù di una legge del 1923, è rimasto inalterato fino al 2003. È seguita poi una legislazione che ha spostato il limite massimo sulla settimana (quarantaquattro / quarantotto), introducendone uno “a contrario” (undici ore di riposo giornaliere), dunque innalzando il limite giornaliero da otto/dieci a tredici. Resta, quanto alla settimana, la previsione del risposo settimanale, che è ovviamente “mobile”, cioè non necessariamente coincidente con la domenica, in ragione delle attività che non possono subire interruzioni, oltre che – nella più recente prospettiva di una società multiculturale - delle diverse pratiche religiose. Resta ancora, infine, la previsione delle ferie annuali retribuite e della irrinunciabilità ad esse, il che significa che non possono essere “monetizzate”, ovvero scambiate con un corrispettivo in denaro.
Uomini e donne, lavoratori e lavoratrici
Il tema del lavoro femminile viene trattato nell’articolo 37, primo comma: La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione.
Dunque la parità di trattamento tra lavoratrici e lavoratori. Questo principio ha dovuto attendere trent’ anni prima di essere tradotto in una legge ordinaria (9 dicembre 1977 n. 903) e, nonostante una’abbondante legislazione e giurisprudenza prima della Comunità e poi dell’Unione Europea - che ha fatto della parità di trattamento uno dei suoi principi cardine -, sappiamo che di fatto i salari femminili sono ancora mediamente assai inferiori a quelli maschili.
Se il compromesso costituzionale tra forze laiche e cattoliche della Repubblica nell’ art. 36 si era espresso con il richiamo condiviso alla sufficienza familiare del salario, qui l’impegno cattolico a favore di una visione tradizionale della donna si è manifestato in modo più marcato con la formula della “essenziale funzione familiare”. Non occorre sottolineare che alla coscienza odierna, al di là della funzione biologico riproduttiva, la famiglia dovrebbe piuttosto essere luogo della parità tra i componenti - come giuridicamente si è stabilito solo a partire dalla riforma delle relative norme del Codice Civile del 1975 – piuttosto che di una qualche essenziale funzione esclusivamente a carico della componente femminile.
Altrettanto dicasi per la “speciale adeguata protezione”, oggi non più da riservarsi “alla madre e al bambino” ma alla funzione genitoriale comunque liberamente espressa. Siamo dunque in presenza di disposizioni che rivelano appieno sia la propria genesi ideale, sia la propria “età” anagrafica. Il che impone una interpretazione storico evolutiva, che sia in grado di “leggere” la norma in modo coerente con l’assetto valoriale e i principi della Carta nel suo complesso (semplificando: lo “spirito” della norma e non esclusivamente la sua “lettera”).
E’ professore emerito di Diritto del lavoro dell’Università di Ferrara. Dal 2011 è socio dell’Associazione di politica e cultura “il Mulino”. Per il Mulino ha curato I lavoratori svantaggiati tra eguaglianza e diritto diseguale (con M.V. Ballestrero, 2005). È condirettore di “Lavoro e diritto”.