Europa
casa comune:  documenti

In questa pagina, pubblichiamo, in parte o integralmente, tre documenti fondamentali per la nascita dell’Unione europea e per l’avvio del suo processo costitutivo. Abbiamo scelto di restringere il campo (come si può immaginare, il ventaglio di possibilità era assai ampio) ai primissimi anni, fra il 1941 e il 1950, quando ancora l’idea di un’Europa pacificata era solo una speranza alimentata dal coraggio e dall’azione (il Manifesto di Ventotene è del 1941, scritto da tre condannati al cofino dal fascismo), una realtà appena sorta da proteggere e consolidare con immaginando scenari inediti (si veda il discorso di hurchill a Zurigo, del 1946) e strumenti istituzionali nuovi e creativi (l’idea geniale di Monnet e Schuman di sottrarre la produzione del carbone e dell’acciaio al monopolio di un solo stato, mettendo in comune le riserve continentali delle materie prime essenziali per l’industria di guerra: la Dichiarazione Schuman è del 1950).

Tutte date, come si vede, anteriori a quel 1957 che vide nascere a Roma la Comunità economica europea. Eppure è dalle intuizioni preveggenti e ardimentose di alcuni uomini, forgiate nel fuoco della tragedia bellica, e dalla loro fantasia creatrice, sempre ancorata alla realtà, ma capace di costruire futuro, che è nata l’Europa di oggi. Ancora debole e incompiuta, certo; con alle spalle un cammino accidentato, fatto anche di delusioni, arretramenti, timori. Ma con una direzione tracciata sin dall’inizio, anzi prima ancora dell’inizio. 

I tre documenti che proponiamo qui hanno contribuito in modo determinante a indicare il senso di marcia.

Il Manifesto di Ventotene

Di questo celebre scritto programmatico, dal titolo Per un’ Europa libera e unita. Progetto di un manifesto, riproduciamo qui soltanto il secondo capitolo. La versione integrale la trovate qui. Redatto nel 1941 da Ernesto Rossi ed Altiero Spinelli, durante il confino nell’isola di Ventotene, il testo sarà poi pubblicato dall’amico Eugenio Colorni, che lo accompagnerà con una densa prefazione, nel 1944, con il titolo Problemi della Federazione Europea.

Nella seconda parte del manifesto, di mano di Altiero Spinelli, si affronta lo scenario del prevedibile dopoguerra, immaginando la sconfitta della Germania nel conflitto. Sorprende la chiarezza antiveggente con la quale Spinelli argomenta l’impossibilità di tornare semplicemente indietro, ai “vecchi sistemi nazionali”: ormai, la vera linea di demarcazione tra democratici e reazionari non sarà più riconducibile all’appartenenza a un partito progressista o conservatore, se l’orizzonte di entrambi sarà la conquista del potere nella propria nazione. L’unico progresso verso la libertà e la democrazia verrà promosso da “quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale”.

Il superamento dell’identificazione tra sovranità e nazione, da cui ci separa ancora oggi un lungo e malcerto cammino, era già presagito da Spinelli in queste pagine.

Compiti del dopo guerra. L’unità europea

La sconfitta della Germania non porterebbe però automaticamente al riordinamento dell’Europa secondo il nostro ideale di civiltà.

Nel breve intenso periodo di crisi generale (in cui gli Stati giaceranno fracassati al suolo, in cui le masse popolari attenderanno ansiose le parole nuove e saranno materia fusa, ardente, suscettibile di essere colata in forme nuove, capaci di accogliere la guida di uomini seriamente internazionalisti), i ceti che più erano privilegiati nei vecchi sistemi nazionali cercheranno subdolamente o con la violenza di smorzare l’ondata dei sentimenti e delle passioni internazionaliste, e si daranno ostentatamente a ricostruire i vecchi organismi statali. Ed è probabile che i dirigenti inglesi, magari d’accordo con quelli americani, tentino di spingere le cose in questo senso, per riprendere la politica dell’equilibrio dei poteri, nell’apparente immediato interesse dei loro imperi.

Le forze conservatrici, cioè: i dirigenti delle istituzioni fondamentali degli Stati nazionali; i quadri superiori delle forze armate; culminanti, là dove ora esistono, nelle monarchie; quei gruppi del capitalismo monopolista che hanno legato le sorti dei loro profitti a quelle degli Stati; i grandi proprietari fondiari e le alte gerarchie ecclesiastiche che solo da una stabile società conservatrice possono vedere assicurate le loro entrate parassitarie; ed al loro seguito tutto l’innumerevole stuolo di coloro che da essi dipendono e che anche sono solo abbagliati dalla loro tradizionale potenza; tutte queste forze reazionarie già fin da oggi sentono che l’edificio scricchiola, e cercano di salvarsi. Il crollo le priverebbe di colpo di tutte le garanzie che hanno avuto finora, e le esporrebbe all’assalto delle forze progressiste.

 

La situazione rivoluzionaria: vecchie e nuove correnti

La caduta dei regimi totalitari significherà sentimentalmente per interi popoli l’avvento della “libertà”; sarà scomparso ogni freno, ed automaticamente regneranno amplissime libertà di parola e di associazione. Sarà il trionfo delle tendenze democratiche. Esse hanno innumerevoli sfumature, che vanno da un liberalismo molto conservatore fino al socialismo e all’anarchia. Credono nella “generazione spontanea” degli avvenimenti e delle istituzioni, nella bontà assoluta degli impulsi che vengono dal basso. Non vogliono forzare la mano alla “storia”, al “popolo”, al “proletariato” e come altro chiamano il loro Dio. Auspicano la fine delle dittature, immaginandola come la restituzione al popolo degli imprescrittibili diritti di autodeterminazione. Il coronamento dei loro sogni è un’assemblea costituente, eletta col più esteso suffragio e col più scrupoloso rispetto del diritto degli elettori, la quale decida che costituzione debba farsi. Se il popolo è immaturo, se ne darà una cattiva; ma correggerla si potrà solo mediante una costante opera di convinzione.

I democratici non rifuggono per principio dalla violenza; ma la vogliono adoperare solo quando la maggioranza sia convinta della sua indispensabilità, cioè propriamente quando non è più altro che un pressoché superfluo puntino da mettere sull’”i”, sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono essere solo ritoccate in aspetti relativamente secondari.  Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono essere già amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente. La pietosa impotenza dei democratici nella rivoluzione russa, tedesca, spagnola, sono tre dei più recenti esempi. In tali situazioni, caduto il vecchio apparato statale, colle sue leggi e la sua amministrazione, pullulano immediatamente, con sembianze di vecchia legalità, o sprezzandola, una quantità di assemblee e rappresentanze popolari in cui convergono e si agitano tutte le forze sociali progressiste. Il popolo ha sì alcuni bisogni fondamentali da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare. Mille campane suonano alle sue orecchie. Con i suoi milioni di teste non riesce ad orientarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta fra loro.

Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia, i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni. Pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare. Perdono le occasioni favorevoli al consolidamento del nuovo regime, cercando di far funzionare subito organi che presuppongono una lunga preparazione, e sono adatti ai periodi di relativa tranquillità; danno ai loro avversari armi di cui quelli si valgono poi per rovesciarli; rappresentano insomma, nelle loro mille tendenze; non già la volontà di rinnovamento, ma le confuse velleità regnanti in tutte le menti, che, paralizzandosi a vicenda preparano il terreno propizio allo sviluppo della reazione. La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria.

Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pre-totalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi.

Il principio secondo il quale la lotta di classe è il termine cui van ridotti tutti i problemi politici, ha costituito la direttiva fondamentale specialmente degli operai delle fabbriche, ed ha giovato a dare consistenza alla loro politica, finché non erano in questione le istituzioni fondamentali; ma si converte in uno strumento di isolamento del proletariato, quando si imponga la necessità di trasformare l’intera organizzazione della società. Gli operai, educati classisticamente, non sanno allora vedere che le loro particolari rivendicazioni di classe, o addirittura di categoria, senza curarsi del come connetterli con gli interessi degli altri ceti; oppure aspirano alla unilaterale dittatura della loro classe, per realizzare l’utopistica collettivizzazione di tutti gli strumenti materiali di produzione, indicata da una propaganda secolare come il rimedio sovrano di tutti i loro mali. Questa politica non riesce a far presa su nessun altro stato, fuorché sugli operai, i quali così privano le altre forze progressive del loro sostegno, o le lasciano cadere in balìa della reazione che abilmente le organizza per spezzare le reni allo stesso movimento proletario.

Fra le varie tendenze proletarie, seguaci della politica classista e dell’ideale collettivista, i comunisti hanno riconosciuta la difficoltà di ottenere un seguito di forze sufficienti per vincere, e per ciò si sono – a differenza degli altri partiti popolari – trasformati in un movimento rigidamente disciplinato che sfrutta il mito russo per organizzare gli operai, ma non prende legge da essi e li utilizza nelle più disparate manovre.

Questo atteggiamento rende i comunisti, nelle crisi rivoluzionarie, più efficienti dei democratici; ma, tenendo essi distinte quanto più possono le classi operaie dalle altre forze rivoluzionarie, – col predicare che la loro “vera” rivoluzione è ancora da venire – costituiscono, nei momenti decisivi, un elemento settario che indebolisce il tutto. Inoltre, la loro assoluta dipendenza dallo Stato russo, che li ha ripetutamente adoperati per il perseguimento della sua politica nazionale, impedisce loro di svolgere alcuna politica con un minimo di continuità. Hanno sempre bisogno di nascondersi dietro un Karoly, un Blum, un Negrin, per andare poi facilmente in rovina insieme con i fantocci democratici adoperati; poiché il potere si consegue e mantiene non semplicemente con la furberia, ma con la capacità di rispondere in modo organico e vitale alle necessità della società moderna.

Se la lotta restasse domani ristretta nel tradizionale campo nazionale, sarebbe molto difficile sfuggire alle vecchie aporie. Gli Stati nazionali hanno infatti già così profondamente pianificato le rispettive economie, che la questione centrale diverrebbe ben presto quella di sapere quale gruppo di interessi economici, cioè quale classe dovrebbe detenere le leve di comando del piano. Il fronte delle forze progressiste sarebbe facilmente frantumato nella rissa fra classi e categorie economiche. Con la maggiore probabilità i reazionari sarebbero coloro che ne trarrebbero profitto.

Un vero movimento rivoluzionario dovrà sorgere da coloro che han saputo criticare le vecchie impostazioni politiche; dovrà saper collaborare con le forze democratiche, con quelle comuniste, e in genere con quanti cooperino alla disgregazione del totalitarismo; ma senza lasciarsi irretire dalla prassi politica di nessuna di esse.

Le forze reazionarie hanno uomini e quadri abili ed educati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati, si proclameranno amanti della libertà, della pace, del benessere generale, delle classi più povere. Già nel passato abbiamo visto come si siano insinuate dietro i movimenti popolari, e li abbiano paralizzati, deviati, convertiti nel preciso contrario. Senza dubbio saranno la forza più pericolosa con cui si dovranno fare i conti.

Il punto sul quale esse cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello Stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico. In tal modo possono anche sperare di più facilmente confondere le idee degli avversari, dato che per le masse popolari l’unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l’ambito nazionale, ed è perciò abbastanza facile convogliare sia esse che i loro capi più miopi sul terreno della ricostruzione degli Stati abbattuti dalla bufera.

Se questo scopo venisse raggiunto, la reazione avrebbe vinto. Potrebbero pure questi Stati essere in apparenza largamente democratici e socialisti; il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo. Risorgerebbero le gelosie nazionali, e ciascuno Stato di nuovo riporrebbe la soddisfazione delle proprie esigenze solo nella forza delle armi. Compito precipuo tornerebbe ad essere a più o meno breve scadenza quello di convertire i popoli in eserciti. I generali tornerebbero a comandare, i monopolisti a profittare delle autarchie, i corpi burocratici a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse. Tutte le conquiste del primo momento si raggrinzerebbero in un nulla, di fronte alla necessità di prepararsi nuovamente alla guerra.

Il problema che in primo luogo va risolto e fallendo il quale qualsiasi altro progresso non è che apparenza, è la definitiva abolizione della divisione dell’Europa in Stati nazionali sovrani. Il crollo della maggior parte degli stati del continente sotto il rullo compressore tedesco ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che, o tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo, in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali. Gli spiriti sono già ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell’Europa. La dura esperienza degli ultimi decenni ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere, ed ha fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale.

Tutti gli uomini ragionevoli riconoscono ormai che non si può mantenere un equilibrio di Stati europei indipendenti, con la convivenza della Germania militarista a parità di condizioni degli altri paesi, né si può spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia vinta. Alla prova, è apparso evidente che nessun paese in Europa può restarsene da parte mentre gli altri si battono, a nulla valendo le dichiarazioni di neutralità e di patti di non aggressione. È ormai dimostrata l’inutilità, anzi la dannosità di organismi sul tipo della Società delle Nazioni, che pretendeva di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni, e rispettando la sovranità assoluta degli Stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo Stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei. Insolubili sono diventati i molteplici problemi che avvelenano la vita internazionale del continente – tracciato dei confini nelle zone di popolazione mista, difesa delle minoranze allogene, sbocco al mare dei paesi situati all’interno, questione balcanica, questione irlandese ecc. – che troverebbe nella Federazione Europea la più semplice soluzione – come l’hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte della più vasta unità nazionale avendo perso la loro acredine, col trasformarsi in problemi di rapporti fra le diverse province.

D’altra parte, la fine del senso di sicurezza dato dalla inattaccabilità della Gran Bretagna, che consigliava agli inglesi la “splendid isolation”, la dissoluzione dell’esercito e della stessa repubblica francese al primo serio urto delle forze tedesche (risultato che è da sperare abbia di molto smorzata la convinzione sciovinistica dell’assoluta superiorità gallica) e la coscienza della gravità del pericolo corso di generale asservimento, sono tutte circostanze che favoriranno la costituzione di un regime federale, che ponga fine all’attuale autarchia. E il fatto che l’Inghilterra abbia ormai accettato il principio dell’indipendenza indiana, e la Francia abbia potenzialmente perduto col riconoscimento della sconfitta tutto il suo impero, rendono più agevole trovare anche una base di accordo per una sistemazione europea nei possedimenti coloniali.

A tutto ciò va aggiunta infine la scomparsa di alcune delle principali dinastie, e la fragilità delle basi che sostengono quelle superstiti. Va tenuto conto infatti che le dinastie, considerando i diversi paesi come proprio tradizionale appannaggio, rappresentavano, con i poderosi interessi di cui eran l’appoggio, un serio ostacolo alla organizzazione razionale degli Stati Uniti d’Europa, i quali non possono poggiare che sulla costituzione repubblicana di tutti i paesi federali. E quando, superando l’orizzonte del vecchio continente, si abbraccino in una visione di insieme tutti i popoli che costituiscono l’umanità, bisogna pur riconoscere che la Federazione Europea è l’unica concepibile garanzia che i rapporti con i popoli asiatici e americani si possano svolgere su una base di pacifica cooperazione, in attesa di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo.

La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del maggiore o minore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale – e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie lasciando solidificare la lava incandescente delle passioni popolari nel vecchio stampo, e risorgere le vecchie assurdità – e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido Stato internazionale, che indirizzeranno verso questo scopo le forze popolari e, anche conquistato il potere nazionale, lo adopreranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale.

Con la propaganda e con l’azione, cercando di stabilire in tutti i modi accordi e legami fra i singoli movimenti che nei vari paesi si vanno certamente formando, occorre sin d’ora gettare le fondamenta di un nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e innovatrice sorta da secoli in Europa; per costituire un saldo Stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali; spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari; abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli Stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli Stati stessi l’autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli.

Se ci sarà nei principali paesi europei un numero sufficiente di uomini che comprenderanno ciò, la vittoria sarà in breve nelle loro mani, poiché la situazione e gli animi saranno favorevoli alla loro opera. Essi avranno di fronte partiti e tendenze già tutti squalificati dalla disastrosa esperienza dell’ultimo ventennio. Poiché sarà l’ora di opere nuove, sarà anche l’ora di uomini nuovi: del Movimento per l’Europa Libera ed Unita
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Fonte: Il Manifesto di Ventotene (1941) – CVCE Website

Il “discorso di Zurigo” di Winston Churchill

Il 19 settembre 1946, agli studenti dell’Università di Zurigo, Winston Churchill tenne un discorso cruciale sull’Europa come comunità di destini, entità storico-cultural sovranazionale, alla quale ancorare un nuovo disegno federativo, per assicurare la pace e la prosperità ad un continente (ma lo sguardo del premier inglese comprende l’intero sistema mondiale delle relazioni intenazionali) sfigurato dalla guerra, conclusasi solo un anno prima.

E’ il “dramma dell’Europa”, come risuona l’attacco del discorso, il cuore del suo appello.

Churchill in Svizzera, tra piacere e affari - SWI swissinfo.ch

 

Winston Churchill, Discorso tenuto all’Università di Zurigo il 19 settembre 1946

Vorrei parlare del dramma dell’Europa, questo nobile continente, patria di tutte le grandi stirpi dell’Occidente, fonte della fede e dell’etica cristiana, culla di gran parte delle culture, delle arti, della filosofia e della scienza, dei tempi antichi e moderni. Se un giorno l’Europa si unisse per condividere questa eredità comune, non vi sarebbero limiti alla felicità, alla prosperità e alla gloria per i suoi tre o quattrocento milioni di persone. Eppure, proprio dall’Europa è scaturita quella serie di terribili conflitti nazionalistici, causati dalle nazioni teutoniche nella loro ascesa al potere, che in questo secolo ventesimo e durante la nostra generazione, abbiamo visto distruggere la pace e rovinare le speranze di tutta l’umanità.

E in quali condizioni è stata ridotta l’Europa? Alcuni degli stati più piccoli si sono ripresi veramente bene, ma in vaste regioni vi sono grandi masse tremebonde di esseri umani tormentati, affamati, angosciati e confusi, che attendono tra le rovine delle loro città e delle loro case e scrutano l’orizzonte oscurato dal sorgere di una nuova tirannia o dal terrore. Tra i vincitori vi è una babele di voci, tra i vinti il cupo silenzio della disperazione. Questo è quanto gli Europei, raggruppati in tanti antichi stati e nazioni, e questo è quanto i popoli germanici hanno ottenuto dilaniandosi a vicenda e spargendo rovina per ogni dove. Invero, se la grande repubblica al di là dell’Atlantico non si fosse resa conto che la rovina o l’asservimento dell’Europa avrebbe potuto coinvolgere anche il suo destino, e non ci avesse teso la mano per soccorrerci e guidarci, sarebbero tornati i tempi bui con tutta la loro crudeltà e il loro squallore. E possono ancora tornare.

Eppure esiste ancora un rimedio che, se fosse generalmente e liberamente adottato dalla grande maggioranza dei popoli in molti paesi, trasformerebbe come per miracolo l’intera scena e in pochi anni renderebbe tutta l’Europa, o la gran parte di essa, libera e felice com’è oggi la Svizzera. Qual è questo rimedio supremo? Esso consiste nel ricostruire l’edificio europeo, o per quanto più è possibile, e nel dotarlo di una struttura in cui esso possa vivere in pace, in sicurezza e in libertà. Dobbiamo costruire una forma di Stati Uniti d’Europa. Solo in questo modo centinaia di milioni di lavoratori potranno riacquisire le semplici gioie e le speranze che rendono la vita degna di essere vissuta. Il cambiamento è semplice. Tutto ciò che occorre è la risoluzione di centinaia di milioni di uomini e di donne di agire bene piuttosto che male e di meritare la ricompensa di essere benedetti invece che maledetti.

Molto lavoro è stato fatto a tale scopo mediante gli sforzi dell’Unione paneuropea, che tanto deve al celebre patriota e statista francese Aristide Briand. Vi è anche quell’immensa struttura creata con grandi speranze dopo la prima guerra mondiale, la Società delle Nazioni. La Società non è fallita a causa dei suoi princìpi o delle sue concezioni. È fallita perché quei princìpi furono disattesi dagli stati che l’avevano fondata, giacché i governi di quegli stati temettero di guardare in faccia la verità e di agire finché erano in tempo. Questo disastro non deve ripetersi. Vi è pertanto molta conoscenza e vi è molto materiale con il quale costruire, e vi sono anche amare esperienze pagate a caro prezzo da non ripetere.

Non vi è alcun motivo per cui un’organizzazione locale europea debba entrare in qualche modo in conflitto con l’organizzazione mondiale delle Nazioni Unite. Al contrario, credo che questa più ampia aggregazione possa sopravvivere solo se si fonda su vasti raggruppamenti naturali. Nell’emisfero occidentale esiste già un raggruppamento naturale. Noi britannici abbiamo il nostro Commonwealth di Nazioni. Queste non indeboliscono, anzi rafforzano, l’organizzazione mondiale. Infatti, ne costituiscono il principale sostegno. E perché non vi dovrebbe essere un raggruppamento europeo, che potrebbe dare un senso di più ampio patriottismo e di cittadinanza comune ai popoli sconvolti di questo potente continente? E perché esso non dovrebbe occupare il giusto posto tra gli altri grandi raggruppamenti e contribuire a modellare un onorato destino per l’umanità? Affinché ciò possa compiersi, vi deve essere un atto di fede al quale milioni di famiglie, parlanti lingue diverse, debbano consapevolmente attenersi.

Noi tutti sappiamo che le due guerre mondiali attraverso le quali siamo passati sono scaturite dalla vana aspirazione della Germania di occupare una posizione dominante nel mondo. In quest’ultimo conflitto sono stati commessi crimini e massacri di cui non si conosce qualcosa di simile dai tempi dell’invasione mongola del XIII secolo e che comunque non hanno uguali in alcuna epoca della storia umana. I colpevoli devono essere puniti. La Germania dev’essere privata della capacità di riarmarsi e di fare un’altra guerra d’aggressione. Ma quando tutto questo sarà stato fatto, come verrà fatto, come si sta già facendo, si dovrà porre fine alle punizioni. Bisogna che vi sia quello che Gladstone molti anni fa chiamava “un benedetto atto di oblio”. Dobbiamo tutti voltare le spalle agli orrori del passato e guardare al futuro. Non possiamo permetterci di trascinare per gli anni a venire odi e vendette scaturiti dalle ferite del passato. Se l’Europa dev’essere salvata da una miseria infinita e, invero, dalla rovina finale, bisogna che vi sia questo atto di fede nella famiglia europea e questo atto di oblio verso tutti i crimini e le follie del passato. Possono i popoli d’Europa elevarsi alle vette dell’animo e dell’istinto dello spirito umano? Se lo possono, i torti e le ferite che sono stati inflitti verranno cancellati ovunque con le miserie che sono state sopportate. Vi è ancora bisogno di altri fiumi di sofferenze? La storia ci può solo insegnare che l’umanità è incapace di imparare? Lasciamo che vi sia giustizia, pietà e libertà! I popoli devono solo volerlo, e tutti otterranno ciò che desiderano con il cuore.

Dirò ora qualcosa che vi sorprenderà. II primo passo verso la ricostruzione della famiglia europea dev’essere un’alleanza fra la Francia e la Germania. Solo così la Francia può recuperare il ruolo di guida morale e culturale dell’Europa. Non vi può essere rinascita dell’Europa senza una Francia spiritualmente grande e senza una Germania spiritualmente grande. La struttura degli Stati Uniti d’Europa sarà tale da rendere meno importante la forza materiale di un singolo stato. Le nazioni piccole conteranno come le grandi e si faranno onore contribuendo alla causa comune. I vecchi stati e principati della Germania, riuniti liberamente per reciproca convenienza in un sistema federale, potrebbero riprendere la loro individualità in seno agli Stati Uniti d’Europa.

Ma devo avvertirvi, potrebbe esservi poco tempo. In questo momento godiamo di un periodo di tregua. I cannoni hanno smesso di sparare. I combattimenti sono cessati. Non sono cessati i pericoli. Se dobbiamo costruire gli Stati Uniti d’Europa, o qualunque altro possa esserne il nome, dobbiamo cominciare adesso. Al giorno d’oggi viviamo stranamente e precariamente sotto lo scudo, e vorrei persino dire sotto la protezione, della bomba atomica. La bomba atomica si trova solo nelle mani di una nazione che sappiamo non la userà mai, se non per le ragioni del diritto e della libertà, ma può darsi che tra qualche anno questo terribile strumento di distruzione sia ampiamente diffuso, e la catastrofe che seguirebbe al suo uso da parte di diverse nazioni in guerra non solo porrebbe fine a tutto quello che noi chiamiamo civiltà, ma potrebbe persino disintegrare lo stesso globo terrestre.

Ora riassumo le proposte che sono dinanzi a voi. Il nostro fine costante deve essere la costruzione e il rafforzamento dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Sotto e all’interno di questa concezione del mondo dobbiamo ricreare la famiglia europea in una struttura locale chiamata, forse, Stati Uniti d’Europa, ed il primo passo concreto sarà la costituzione di un Consiglio d’Europa. Se all’inizio non tutti gli stati d’Europa vogliono o possono aderire all’unione, dobbiamo nondimeno continuare a riunire e ad integrare quelli che lo vogliono e possono. La salvezza della gente comune di ogni razza e luogo dalla guerra e dall’asservimento deve avere fondamenta solide e deve essere creata con la disponibilità di tutti gli uomini e di tutte le donne a morire piuttosto che sottomettersi alla tirannia. In questo compito urgente la Francia e la Germania devono prendere insieme la guida. La Gran Bretagna, il Commonwealth Britannico di Nazioni, la potente America  – e, spero, la Russia Sovietica perché allora tutto andrebbe bene – devono essere amici e sostenitori della nuova Europa e devono difendere il suo diritto alla vita. Perciò vi dico “Fate sorgere l’Europa!”.
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Traduzione di A. La Regina, 2019.
Fonte: Istituto Nazionale di Archeologia e Storia dell’Arte (scarica la versione originale in lingua inglese).

La “Dichiarazione Schuman”

Il 9 maggio 1950, a Parigi, il Ministro degli Esteri francese rilasciò una dichiarazione, durante una conferenza stampa, che, a ragione, viene considerata fondativa del processo di integrazione europea. Nell’età moderna, il fulcro dei conflitti intraeuropei è sempre stato l’antagonismo fra Francia e Germania. Fin dalla guerra franco-prussiana del 1870, il cuore economico e strategico del confronto furono le terre di mezzo – l’Alsazia-Lorena, la Ruhr e la Saar – contese non solo per la loro posizione geografica di confine, ma soprattutto per la ricchezza dei rispettivi giacimenti siderurgici e carboniferi, materie prime chiave della industria bellica e, quindi, della potenza militare di una nazione.

Il tema non poteva essere superato con la semplice annessione da parte della nazione vincitrice, senza che rischiassero di riproporsi le tensioni che, dopo la Prima guerra mondiale, condussero, insieme ad altri fattori, al secondo conflitto.

La soluzione, frutto degli “sforzi creativi” di cui Schuman parla in apertura, doveva trovarsi in una concezione nuova di governo sovranazionale di quelle risorse: una Alta autorità, che regolasse lo sfruttamento di quelle ricchezze sulla base di accordi comunitari, sottratti alla sovranità dei singoli stati.

Il percorso che comincia da questa dichiarazione, la cui data è divenuta non a caso “Giornata dell’Europa” (9 maggio), condurrà al Trattato della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA), il primo dei trattati istitutivi dell’Europa comunitaria, siglato a Parigi nel 1951.

 

 

Robert Schuman, Discorso tenuto il 9 maggio 1950

La pace mondiale non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano.

Il contributo che un’Europa organizzata e vitale può apportare alla civiltà è indispensabile per il mantenimento di relazioni pacifiche. La Francia, facendosi da oltre vent’anni antesignana di un’Europa unita, ha sempre avuto per obiettivo essenziale di servire la pace. L’Europa non è stata fatta : abbiamo avuto la guerra.

L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme; essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto. L’unione delle nazioni esige l’eliminazione del contrasto secolare tra la Francia e la Germania: l’azione intrapresa deve concernere in prima linea la Francia e la Germania.

A tal fine, il governo francese propone di concentrare immediatamente l’azione su un punto limitato ma decisivo.

Il governo francese propone di mettere l’insieme della produzione franco-tedesca di carbone e di acciaio sotto una comune Alta Autorità, nel quadro di un’organizzazione alla quale possono aderire gli altri paesi europei.

La fusione della produzioni di carbone e di acciaio assicurerà subito la costituzione di basi comuni per lo sviluppo economico, prima tappa della Federazione europea, e cambierà il destino di queste regioni che per lungo tempo si sono dedicate alla fabbricazione di strumenti bellici di cui più costantemente sono state le vittime.

La solidarietà di produzione in tal modo realizzata farà si che una qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania diventi non solo impensabile, ma materialmente impossibile. La creazione di questa potente unità di produzione, aperta a tutti i paesi che vorranno aderirvi e intesa a fornire a tutti i paesi in essa riuniti gli elementi di base della produzione industriale a condizioni uguali, getterà le fondamenta reali della loro unificazione economica.

Questa produzione sarà offerta al mondo intero senza distinzione né esclusione per contribuire al rialzo del livello di vita e al progresso delle opere di pace. Se potrà contare su un rafforzamento dei mezzi, l’Europa sarà in grado di proseguire nella realizzazione di uno dei suoi compiti essenziali: lo sviluppo del continente africano. Sarà così effettuata, rapidamente e con mezzi semplici, la fusione di interessi necessari all’instaurazione di una comunità economica e si introdurrà il fermento di una comunità più profonda tra paesi lungamente contrapposti da sanguinose scissioni.

Questa proposta, mettendo in comune le produzioni di base e istituendo una nuova Alta Autorità, le cui decisioni saranno vincolanti per la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, costituirà il primo nucleo concreto di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace.Per giungere alla realizzazione degli obiettivi cosi’ definiti, il governo francese è pronto ad iniziare dei negoziati sulle basi seguenti.

Il compito affidato alla comune Alta Autorità sarà di assicurare entro i termini più brevi: l’ammodernamento della produzione e il miglioramento della sua qualità: la fornitura, a condizioni uguali, del carbone e dell’acciaio sul mercato francese e sul mercato tedesco nonché su quelli dei paese aderenti: lo sviluppo dell’esportazione comune verso gli altri paesi; l’uguagliamento verso l’alto delle condizioni di vita della manodopera di queste industrie.

Per conseguire tali obiettivi, partendo dalle condizioni molto dissimili in cui attualmente si trovano le produzioni dei paesi aderenti, occorrerà mettere in vigore, a titolo transitorio, alcune disposizioni che comportano l’applicazione di un piano di produzione e di investimento, l’istituzione di meccanismi di perequazione dei prezzi e la creazione di un fondo di riconversione che faciliti la razionalizzazione della produzione. La circolazione del carbone e dell’acciaio tra i paesi aderenti sarà immediatamente esentata da qualsiasi dazio doganale e non potrà essere colpita da tariffe di trasporto differenziali. Ne risulteranno gradualmente le condizioni che assicureranno automaticamente la ripartizione più razionale della produzione al più alto livello di produttività.

Contrariamente ad un cartello internazionale, che tende alla ripartizione e allo sfruttamento dei mercati nazionali mediante pratiche restrittive e il mantenimento di profitti elevati, l’organizzazione progettata assicurerà la fusione dei mercati e l’espansione della produzione.

I principi e gli impegni essenziali sopra definiti saranno oggetto di un trattato firmato tra gli stati e sottoposto alla ratifica dei parlamenti.  ________________________ 
Fonte: Schuman – CECA