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Allevamenti intensivi e il clima del pianeta

da | 18 Ago 2023 | allevamenti intensivi, OWD, riscaldamento globale

Allevamenti intensivi e il clima del pianeta
Gli allevamenti intensivi e il clima del pianeta sono uno dei temi caldi sul tavolo dei ricercatori e dei sorveglianti sul clima. Non solo la produzione di metano che avviene nei processi di digestione dei bovini (e dei suini) sono una delle cause del riscaldamento globale, assieme ad altri fattori come il consumo del territorio, la deforestazione e altri ancora.

 

Una nuova estinzione di massa?

Oramai sulla terra coltiviamo più mangimi che prodotti alimentari, ossia di prodotti mangiati direttamente dall’uomo. Oramai la biomassa dei mammiferi domestici, gli animali che alleviamo per nutrirci, fondamentalmente bovini e suini, rappresentano il 60% di tutta la biomassa dei mammiferi terrestri, l'uomo Homo Sapiens è un altro 36%, tutti gli altri animali mammiferi terrestri selvatici dal toporagno al rinoceronte rappresentano il 4% in massa di tutti di tutti questi mammiferi. Si comincia a parlare della sesta estinzione di massa.

Allevamenti intensivi e il clima del pianeta

La sindrome della mucca pazza

Correva l’anno 2001 quando i 12 ministri dell’agricoltura europei decisero di mettere al bando le bistecche con l'osso di tutti i bovini di età superiore ai 12 mesi. Le motivazioni?  prevenire ulteriori rischi nella diffusione del morbo della mucca pazza.

L'encefalopatia spongiforme bovina (BSE, ossia Bovine Spongiform Encephalopathy) è una malattia neurologica cronica, degenerativa e irreversibile che colpiva i bovini, causata da un prione, una proteina patogena conosciuta anche come "agente infettivo non convenzionale". Il morbo divenne noto all'opinione pubblica come morbo della mucca pazza oppure semplicemente mucca pazza (in inglese MCD, mad cow disease). La BSE faceva parte di un gruppo di malattie denominate encefalopatie spongiformi trasmissibili che colpiscono diverse specie animali, compreso l'uomo. Dalla scoperta della malattia, numerose ricerche e prevenzioni sono state svolte accuratamente a partire dall'esordio dell'epidemia, che ha portato all'eradicazione totale della malattia.

Fu il panico tanto che qualcuno pensò anche una sorta di contrabbando con la Repubblica di San Marino (dove le restrizioni erano meno forti). In realtà non era una malattia trasmissibile e si contraeva solo quando si mangiava carne di un animale malato che non fosse stata cotta bene. Una certezza che, anche da sola, ridimensionava il fenomeno.

Questo scenario oggi fa’ un po’ sorridere, almeno chi ha più di 30 anni (ai più giovani probabilmente non significa quasi niente), ma in ogni caso è nulla rispetto a quello che ci aspetta nei prossimi anni sul tema dei danni che gli allevamenti intensivi possono produrre al nostro eco sistema.

Quando è che un allevamento si definisce intensivo?

La maggior parte della cane che arriva sulle nostre tavole proviene da allevamenti intensivi e industriali (qualcuno disquisisce anche sulle differenze tra questi termini ma alla fine sono la stessa cosa). 

Da un punto di vista fisico, gli elementi qualificanti sono due: un alto numero di capi di bestiame e un ridotto spazio vitale assegnato a ciascuno di essi. Questi due elementi da soli, però, non sono sufficienti a inquadrare il fenomeno. C’è tutta una dimensione organizzativa e gestionale che non può e non deve essere ignorata, perché qualificante. La forza che ha determinato il successo degli allevamenti intensivi, infatti, è il loro presentarsi come una forma estrema di industrializzazione, con massiccio uso di tecnologie e medicinali (soprattutto antibiotici) e programmazione minuziosa di ogni dettaglio, dalla selezione delle razze fino al controllo del quantitativo di acqua a disposizione del bestiame.

A partire dal secondo dopoguerra, per tutto il ‘900, la diffusione degli allevamenti industriali è cresciuta in modo esponenziale. E la tendenza continua ancora oggi. Secondo il CIWF - Compassion in World Farming, nel mondo, ogni anno, vengono allevati circa 70 miliardi di animali e l’80% si trova in strutture con approccio intensivo. Si tratta di ovini, bovini, suini, tacchini e polli. L’Italia viaggia perfettamente in media con il resto del mondo e la maggior parte degli allevamenti intensivi è localizzata nel nord, tra Piemonte, Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna. Nello specifico, nel nostro paese ci sono circa 9 milioni di bovini (il 75% in allevamenti intensivi) e 8,5 milioni di suini (praticamente tutti allevati industrialmente).

La JBS S.A. è una società brasiliana, ed è la più grande azienda di lavorazione della carne del mondo, produce carne di manzo, pollo e maiale lavorati in fabbrica e vende anche sottoprodotti della lavorazione di queste carni. Ha sede a San Paolo. A partire da maggio 2017, JBS S.A. rimane il più grande produttore di carne al mondo. In Italia il marchio più rinomato del gruppo JBS è Rigamonti, azienda valtellinese specializzata in bresaole tra i tanti acquistati in tutto il mondo. Coinvolta in casi di corruzione, la JBS è inoltre causa principale della deforestazione della Foresta Amazzonica, utilizzata per creare terreni di pascolo per gli animali.

Gli allevamenti intesivi di bestiame costituiscono uno degli elementi più dannosi e più pericolosi per il clima e l’ambiente, e questo per più di un motivo, di seguito vediamone i più rilevanti

I bovini producono una grande quantità di gas climalterante

Le mucche producono metano attraverso i microbi nei loro stomaci mentre digeriscono il loro cibo fibroso, in un processo un po’ simile alla fermentazione. Per questo sono una delle principali fonti di gas serra al mondo. «Se fossero un paese», ha scritto il New York Times, «sarebbero il sesto al mondo per emissioni di metano, davanti a paesi come Brasile, Giappone e Germania». Ogni grande bovino, ha proseguito il New York Times, rilascia nell’atmosfera gas serra equivalenti a circa due tonnellate di anidride carbonica all’anno. Visto che l’aumento dei gas serra è la principale causa del riscaldamento globale, e visto che i grandi bovini al mondo sono più di un miliardo, è un problema. Stiamo parlando, per i soli bovini adulti, di 2 GTon/anno (GTon = miliardo di tonnellate), su un totale di 33 GTon di CO2 emesso in atmosfera da tutto il pianeta. (si veda su Civitas Quanto inquina Internet).

Quando si parla di emissioni di gas a effetto serra responsabili del riscaldamento globale e del cambiamento climatico il pensiero va subito alla CO2. Esistono però gas che hanno un impatto sul riscaldamento globale di molto maggiore rispetto a quello dell’anidride carbonica: il metano, ad esempio, ha un potenziale climalterante tra le 20 e le 30 volte superiore a quello dell’anidride carbonica.

In assenza di studi mirati sull’impatto di certi agenti inquinanti, risulta più facile ignorarli. Tra questi spicca il metano. Se è vero che la pandemia ha temporaneamente ridotto le emissioni di CO2, quelle del metano hanno invece sempre continuato a salire. Nonostante riceva poche attenzioni, il metano è responsabile per circa un quarto dell’innalzamento delle temperature globali.

Un’ampia gamma di ormai note e ben comprese tecnologie è quindi in grado di assicurarci una riduzione notevole delle emissioni di metano dall’industria petrolifera e del gas. Un compito più difficile rappresenta ridurre le emissioni degli allevamenti intensivi e dell’agricoltura industriale.

il metano è responsabile per circa un quarto dell’innalzamento delle temperature

piccoli spazi per gli animali
grandi spazi per gli allevatori

Gli allevamenti intensivi consumano molto territorio

A oggi, l’agricoltura industriale è responsabile del 33% delle emissioni di CO2 a livello mondiale. Ma contrariamente a quanto in molti sono portati erroneamente a credere, eliminare gli allevamenti intensivi ci permetterebbe di ridurre anche il consumo di terreno per il semplice motivo che non ci servirebbe foraggio. Il bestiame produttivo sfrutta infatti più del 70% delle terre agricole del pianeta tra pascoli e terreni per coltivare mangimi, producendo solo il 18% del fabbisogno calorico globale: un animale da reddito produce a tutti gli effetti meno di quanto consuma.

Il cibo destinato al bestiame potrebbe nutrire direttamente l’uomo limitando drasticamente l’incidenza di fattori collaterali come, tra i tanti, la deforestazione. Per citare un esempio, il 70% della soia coltivata nel mondo è destinata agli animali da allevamento e la sovrapproduzione di questo legume ha un costo altissimo in termini di impatto ambientale.

Gli allevamenti intensivi consumano una rilevante quantità di acqua

Il 70% dell'acqua utilizzata sul pianeta è consumato dalla zootecnia e dall'agricoltura (i cui prodotti servono per la maggior parte a nutrire gli animali d'allevamento). Quasi la metà dell'acqua consumata negli Stati Uniti è destinata alle coltivazioni di alimenti per il bestiame.

Gli allevamenti consumano una quantità d'acqua molto maggiore di quella necessaria per coltivare soia, cereali, o verdure per il consumo diretto umano. Dobbiamo sommare, infatti, l'acqua impiegata nelle coltivazioni, che avvengono in gran parte su terre irrigate, l'acqua necessaria ad abbeverare gli animali e l'acqua per pulire le stalle. Una vacca da latte beve 200 litri di acqua al giorno, 50 litri un bovino o un cavallo, 20 litri un maiale e circa 10 una pecora.

L'acqua richiesta per produrre vari tipi di cibo vegetale e foraggio varia dai 500 ai 2000 litri per chilo di raccolto prodotto. Il bestiame utilizza in modo diretto solo l'1,3% dell'acqua usata in totale in agricoltura; tuttavia, se si prende in considerazione anche l'acqua richiesta per la coltivazione dei cereali e del foraggio per uso animale, la quantità d'acqua richiesta è enormemente più elevata.

Il settimanale Newsweek ha calcolato che per produrre soli cinque chili di carne bovina serve tanta acqua quanta ne consuma una famiglia media in un anno. Cinque kg di carne non bastano a coprire il consumo di una settimana, per la stessa famiglia!

Acqua e carne, due facce dello stesso spreco. Secondo la Fao la siccità costa all’Italia un miliardo di euro all’anno ed è, a livello globale, la principale causa della perdita di produzione agricola, eppure si continua a impiegare questa preziosa risorsa negli allevamenti intensivi disseminati in tutta la Penisola.

è stato calcolato che per produrre soli cinque chili di carne bovina serve tanta acqua quanta ne consuma una famiglia media in un anno

l’abuso di antibiotici negli allevamenti contribuisce alla diffusione
dell’antibiotico resistenza 

Resistenza agli antibiotici, grave minaccia per la salute pubblica globale

Gli allevamenti intensivi diffondono antibiotici

Circa il 70% degli antibiotici venduti in Italia è destinato agli animali. Secondo l’ultimo report EMA – ESVAC, siamo secondi nella classifica dei paesi UE per quanto riguarda la vendita di antibiotici destinati agli animali negli allevamenti.

Perché agli animali negli allevamenti vengono somministrati così tanti antibiotici? Perché gli animali sono allevati in condizioni così estreme che la loro sopravvivenza nei capannoni sovraffollati e malsani è spesso garantita solo dagli antibiotici.

L’abuso di antibiotici negli allevamenti contribuisce alla diffusione dell’antibiotico resistenza anche tra le persone. L’antibiotico resistenza mette a grave rischio la salute umana.

Quando agli animali vengono somministrati troppi antibiotici, possono svilupparsi batteri antibiotico resistenti che possono rimanere sulla carne cruda e venire trasmessi agli esseri umani, tramite manipolazione della carne cruda. Con oltre 10mila decessi ogni anno, su 33mila circa in Europa, l'Italia ha il triste primato delle morti da resistenza agli antibiotici nella UE (più del doppio della media europea).

Parte dell’industria e della grande distribuzione, sfruttando il bisogno di rassicurazione dei consumatori, promuove prodotti di origine animale etichettati “senza uso di antibiotici”, ma la comunicazione sui prodotti “senza antibiotici” è fuorviante

 

Il benessere degli animali totalmente dimenticato?

Alcune settimane fa sul New York Times è stato pubblicato un articolo dal titolo “Is Dairy Farming Cruel to Cows?” tradotto “L’industria del latte è crudele con le mucche?”.

Nell’articolo il giornalista ha affrontato il tema in modo molto approfondito proponendo diversi punti di vista: se da un lato ha citato il pensiero di chi – come Animal Equality e altre organizzazioni – si occupa di lottare per gli animali sfruttati a scopo alimentare, dall’altro ha dato molto spazio al parere di esperti di benessere animale che difendono l’operato del settore caseario, un settore che ricordiamo negli Stati Uniti vale 620 miliardi di dollari.

Probabilmente esistono anche allevamenti dove i bisogni degli animali vengono tenuti in maggiore considerazione, anche se sappiamo che ad esempio in Italia la maggior parte delle mucche vive in sistemi a pascolo zero, e dunque passa la sua intera vita in capannoni su pavimenti di cemento.

Tuttavia, anche dove le condizioni di vita dovessero sembrare migliori per gli animali il sistema di produzione del latte rimarrebbe un sistema ingiusto e crudele.

Come tutti i mammiferi, infatti, le mucche producono latte solo dopo aver partorito e per questo per produrre latte le mucche sono costrette ad un ciclo infinito di inseminazioni artificiali e di parti. Un ciclo che porterà il loro fisico a consumarsi, molto prima di quanto accadrebbe in natura.

Allevamenti intensivi e il clima del pianeta

Conclusioni

Senza una presa di posizione netta ci troveremo più in fretta di quanto siamo disposti a immaginare in un pianeta gravemente degradato, in cui la maggior parte di noi soffrirà di malnutrizione e malattie oggi ancora prevenibili.

Ormai i governi del mondo dovrebbero aver capito che certi problemi gravi ed endemici andrebbero risolti, e se questi, da cui dipendono le nostre sorti, fingono di non vedere si corre il serio rischio che saranno i cittadini a esigere delle risposte. In un sistema in cui tutti i fattori sono interdipendenti è necessaria un’azione coordinata: la molteplicità delle parti rende necessario lo sviluppo di soluzioni coerenti con la complessità del fenomeno.

 

Il Parlamento europeo contro gli allevamenti intensivi

Nel testo approvato il 20 ottobre 2021, le raccomandazioni votate dagli eurodeputati si concentrano su tre macro-obiettivi: raggiungere standard comuni e più elevati per alimenti più sani e sostenibili, perseguire una maggiore sicurezza alimentare e un reddito equo per gli agricoltori.

Al centro della strategia, la sostenibilità, pilastro del Green Deal e della transizione ecologica, porta con sé numerosi ambiti di intervento che tuttavia sembrano scontrarsi con l’elefante nella stanza che anche la Cop26 sembra aver finora deliberatamente ignorato: il ruolo degli allevamenti intensivi nell’impatto ambientale e la scarsa tutela del benessere degli animali coinvolti all’interno della filiera alimentare.


Mappe tematiche sulla produzione e sul consumo di carne

Come spesso succede il portale Our World in Data contiene un numero considerevole di mappe tematiche su argomenti vicini a quelli trattati da questo articolo; se vuoi andare all'originale clicca qui; inoltre su Civitas trovate l'articolo I peccati della carne e la difesa dell’ambiente  dove sono riportati alcuni grafici desunti dal portale inglese. Qui ci limitiamo a riportare la tavola Numero di animali macellati per anno nel periodo 1961-2021: polli, anatre, maiali, pecore, tacchini, capre e bovini

 

(se non conosci i grafici di Our World in Data vedi l'articolo che spiega le modalità di utilizzo)

L'entità del consumo di carne da parte dell'umanità è enorme. 360 milioni di tonnellate di carne ogni anno. È un numero così grande che quasi risulta impossibile da comprendere. Forse è più semplice passare dal peso della carne al numero di animali macellati, e dal totale annuale al numero giornaliero. La figura a fianco, mostra quanti animali vengono macellati in un giorno medio. Ogni giorno vengono macellate circa 900.000 mucche. Se ogni mucca fosse lunga 2 metri e camminasse una dietro l'altra, questa fila di mucche si estenderebbe per 1800 chilometri. Per i polli, il conteggio giornaliero è estremamente elevato: 202 milioni di polli al giorno. Per comprenderne la portata, è meglio scendere al minuto medio: ogni minuto vengono macellati 140.000 polli. Il numero di pesci uccisi ogni giorno è molto incerto (comunque si parla di centinaia di milioni al giorno).

Se credete che la macellazione degli animali li faccia soffrire e attribuite anche solo una piccola misura di significato etico alla loro sofferenza, allora la scala morale di questa realtà è immensa.

fonte:Our World in Data

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a cura della redazione di Civitas


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