Disinformazione
e responsabilità:  questioni controverse


Disinformazione: che cos’è e perché ci preoccupa

La crescente preoccupazione pubblica sul tema della disinformazione di solito si accompagna alla convinzione che essa sia estremamente diffusa, e che lo sia oggi molto più di quanto accadeva in passato: una deriva di cui tipicamente si accusano, più o meno esplicitamente, le nuove tecnologie digitali. Ma è davvero così? Soprattutto, chi sostiene che oggi la disinformazione dilaga, cioè è significativamente aumentata in termini quantitativi, su quali dati basa tale affermazione?

La questione è molto importante, perché, non appena ci si ferma a riflettere un attimo, ci si rende conto che misurare la quantità di disinformazione in circolazione, oggi e ancor più in epoche passate, non è affatto facile. Non solo: il dato sulla disinformazione deve ovviamente essere confrontato all’aumento generale della quantità di informazione a cui le nuove tecnologie ci garantiscono accesso. Infatti, la disinformazione sarebbe dilagante solo se crescesse in modo più che proporzionale rispetto alla crescita di tutta l’informazione in circolazione.

Si tratta di calcoli difficili da fare, ma che risultano indispensabili per andare oltre affermazioni vaghe e per sentito dire: chi ci ha provato, ha scoperto che la percentuale di disinformazione, sul totale della “dieta mediatica” degli utenti online, è tutto sommato assai ridotta. Al contempo, studi sul campo iniziano a svelare le vere ragioni che ci portano a preoccuparci così tanto, quasi ossessivamente, di disinformazione: si tratta di motivi poco legati all’effettiva diffusione della disinformazione, e molto alla nostra percezione soggettiva del fenomeno, su cui vale la pena riflettere.

Alberto Acerbi

Ricercatore senior nel Dipartimento di sociologia e ricerca sociale dell’Università di Trento. Si interessa di evoluzione culturale, sociologia della cultura, e antropologia cognitiva. La sua ricerca utilizza approcci quantitativi ed evoluzionistici per far luce sui fenomeni culturali, soprattutto contemporanei. Più recentemente, si è interessato all’uso della teoria dell’evoluzione culturale per studiare l’effetto dei media digitali. Su questo argomento ha pubblicato nel 2020 il libro Cultural evolution in the digital age (Oxford University Press).o).


Strategie di lotta alla disinformazione

A prescindere da quanto grave sia il problema della disinformazione oggi, è sicuramente utile organizzarsi, come singoli e come collettività, per farvi fronte ed evitarne le conseguenze più negative. Ma quali strategie di lotta alla disinformazione abbiamo a disposizione, e quali danno le migliori garanzie di efficacia?

I metodi più consolidati rimandano alle pratiche di fact checking e debunking: vale a dire, la verifica sulle fonti e sulla qualità dell’informazione, e il disvelamento di notizie false o fuorvianti. Si tratta di strumenti utili e ottime abitudini da coltivare in proprio, eppure si portano dietro alcuni problemi: da un lato, il concetto stesso di “fact checking” presuppone che vi siano dei fatti da accertare e che farlo sia possibile, il che non è sempre vero (l’incertezza radicale caratterizza gran parte delle nostre conoscenze e decisioni), e soprattutto promuove un’idea di “evidenza della verità” molto pericolosa e, paradossalmente, foriera di rischi di disinformazione; dall’altro lato, il debunking presuppone che ciò a cui si fanno le pulci sia falso o sbagliato, e dunque si caratterizza come pratica aggressiva e priva di potere persuasivo – come tutti avranno sperimentato, fare debunking di una certa notizia convince della sua falsità solo chi già ne diffidava, mentre chi ci credeva non solo non cambia idea, ma anzi si arrocca su posizioni sempre più rigide ed estreme.

Servono dunque alternative più creative per combattere la disinformazione. Alcuni buoni esempi riguardano l’uso di approcci basati sulla teoria dell’inoculazione e lo sfruttamento della viralità come volano per diffondere informazione di qualità. Il primo approccio è bene illustrato da una piattaforma ludica sviluppata da alcuni ricercatori, Get Bad News, in cui si aumenta la resistenza dei partecipanti alla disinformazione non facendo loro noiosi pistolotti su quanto sia importante esercitare cautela verso l’informazione che gira in rete, ma al contrario addestrandoli a interpretare il ruolo di agenti disinformatori, in un contesto protetto, in modo che imparino i “trucchi del mestiere” e poi sappiano riconoscerli, quando qualcuno prova a usarli contro di loro. La viralità invece può essere usata a fin di bene o in modo casuale, ad esempio quando porta alla diffusione di informazione corretta o socialmente positiva, oppure in modo deliberato: un ottimo esempio di quest’uso intenzionale della viralità per combattere la disinformazione è la strategia di “humor over rumor” messa in atto dal governo di Taiwan in anni recenti, e raccontata in vari video disponibili in rete dal loro Ministro del Digitale, Audrey Tang.

Fabio Paglieri

Dirigente di ricerca presso l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR di Roma, è stato Presidente dell’Associazione Italiana di Scienze Cognitive (2017-2019) e membro del Direttivo dell’Associazione Italiana di Psicologia (2021-2023): dal 2012 dirige due riviste accademiche, Sistemi Intelligenti (Il Mulino) e Topoi (Springer). È uno psicologo cognitivo e si occupa prevalentemente di processi decisionali ed epistemici: ha pubblicato 4 monografie e oltre 150 articoli scientifici su questi temi, nonché svariate curatele. Nel 2020 ha proposto un approccio non catastrofista al problema della disinformazione, nel libro La disinformazione felice (Il Mulino).