Disinformazione
e responsabilità: storia
Che cosa troverete in questa pagina?
Di seguito riportiamo una linea del tempo che colleziona vari esempi particolarmente importanti e significativi di disinformazione nel corso dei secoli: non sono sicuramente gli unici casi notevoli, bensì una selezione ad hoc, utile a illustrare vari aspetti del fenomeno della disinformazione, e a dimostrare come esso abbia accompagnato l’intera storia della nostra civiltà.
La linea del tempo
Per comodità, si fa riferimento alla periodizzazione classica della storiografia occidentale e si distinguono soltanto tre macro-blocchi: età antica (dall’invenzione della scrittura alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C.), medioevo ed età moderna (dal 476 d.C. fino alla Rivoluzione Francese nel 1789 d.C.), ed età contemporanea (dal 1789 d.C. a oggi). Il maggior numero di casi riportati in quest’ultima categoria dipende dalla maggiore disponibilità di documentazione scritta, non certo dal fatto che gli esseri umani fossero, in epoche più remote, meno esposti a fenomeni di disinformazione.
Età antica (3500 a.C. – 476 d.C.)
430 a.C. – Tucidide e le presunte responsabilità spartane nella peste di Atene
Durante la seconda guerra del Peloponneso, Atene viene colpita da una grave pestilenza, che ne decima gli abitanti: fra le vittime vi è anche Pericle, il suo cittadino più illustre. Nel racconto che ne fa Tucidide, nel libro II della Guerra del Peloponneso, viene menzionata una teoria del complotto che si diffuse all’epoca, secondo cui il contagio sarebbe stato provocato dall’avvelenamento delle riserve d’acqua del Pireo ad opera degli Spartani: “Ad Atene [la pestilenza] piombò improvvisamente, e dapprima contagiò gli uomini al Pireo, sì che dagli Ateniesi si disse anche che i Peloponnesi avevano gettato dei veleni nelle cisterne (al Pireo, infatti, non vi erano ancora delle fontane)”.
Lo stesso Tucidide più avanti spiega che la pestilenza era probabilmente giunta dall’Africa, e aveva colpito per primo il Pireo proprio perché quello era il punto di arrivo delle navi: ma la tendenza ad attribuire un evento catastrofico alle trame del nemico era evidentemente ben presente nella popolazione di Atene.
Del resto, si è assistito a distorsioni analoghe anche in tempi recenti: durante la pandemia di Covid-19, l’amministrazione Trump a inizio 2020 ha diffuso accuse e insinuazioni sul fatto che la Cina abbia creato il virus in un laboratorio a Wuhan. Basta sostituire l’amministrazione Trump agli Ateniesi, la Cina agli Spartani, il Covid-19 alla pestilenza, il laboratorio di Wuhan alle cisterne del Pireo, per accorgersi che il copione di queste false notizie è identico, a distanza di quasi 2500 anni.
29-19 a.C. – Virgilio e la descrizione della fama
Nel libro IV dell’Eneide, versi 265-289, Virgilio descrive la Fama come un orrendo mostro alato, dotato di mille occhi e lingue, che trae diletto dal seminare “non men che ’l bene e ’l vero, il male e ’l falso”, sicché “di rumor empie e di spavento i popoli”. Si tratta ancora oggi di una delle più vivide e accurate descrizioni della diceria, che ci dimostra come già in epoca antica la disinformazione non facesse fatica a circolare veloce di bocca in bocca, nonostante i limiti tecnologici dei mezzi di informazione di allora. Riportiamo di seguito il celebre passo, nella classica traduzione di Annibal Caro.
È questa fama un mal, di cui null’altro
È più veloce; e com’ più va, più cresce
E maggior forza acquista. È da principio
Picciola e debbil cosa, e non s’arrischia
Di palesarsi; poi di mano in mano
Si discuopre e s’avanza, e sopra terra
Sen va movendo e sormontando a l’aura,
Tanto che ’l capo infra le nubi asconde.
Dicon che già la nostra madre antica,
Per la ruina de’ giganti irata
Contr’a’ celesti, al mondo la produsse,
D’Encèlado e di Ceo minor sorella;
Mostro orribile e grande, d’ali presta
E veloce de’ piè; che quante ha piume,
Tanti ha sotto occhi vigilanti, e tante
(Meraviglia a ridirlo) ha lingue e bocche
Per favellare, e per udire orecchi.
Vola di notte per l’oscure tenebre
De la terra e del ciel senza riposo,
Stridendo sempre, e non chiude occhi mai.
Il giorno sopra tetti, e per le torri
Sen va de le città, spiando tutto
Che si vede e che s’ode: e seminando,
Non men che ’l bene e ’l vero, il male e ’l falso,
Di rumor empie e di spavento i popoli.
7-4 a.C. – False notizie dalla Natività
Sembra ovvio che Gesù sia nato, per definizione, nell’anno 0 della datazione gregoriana, ma in realtà è più probabile che la sua nascita si collochi fra il 7 e il 4 a.C., sia per ragioni storiche (il regno di Erode il Grande in Giudea, durante il quale avviene la natività, si conclude nel 4 a.C.), sia per ragioni astronomiche (la cosiddetta “stella di Betlemme” viene dai più identificata con la triplice congiunzione di Giove, Saturno e Marte del 7 a.C.), sia per questioni legate al sistema di datazione (il numero zero non era ancora in uso in Occidente, quando la nascita di Cristo diventa riferimento cronologico per il computo degli anni).
Ma le false notizie sulla natività che tradizioni popolari come il presepe registrano e contribuiscono ad alimentare sono molto più numerose: per esempio, nei vangeli non si fa menzione del fatto che i tre Re Magi fossero in effetti tre, né che si trattasse di sovrani; quanto alla stella che ne avrebbe guidato il cammino, da nessuna parte viene descritta come cometa – e infatti le ricostruzioni moderne escludono che si sia trattato di una cometa. Insomma, uno degli episodi più importanti e noti della tradizione cristiana viene da secoli rappresentato con un numero assai elevato di inesattezze e distorsioni. Chi volesse approfondire il discorso, troverà molte notizie curiose e aneddoti interessanti nel libro di Errico Buonanno, Falso Natale: bufale, storie e leggende della festa più importante dell’anno (UTET, 2018).
315 d.C. – La Donazione di Costantino e altri falsi storici
Si tratta di uno dei più celebri documenti falsi della storia: un testo apocrifo, datato 30 marzo 315 d.C., in cui si descrive un precedente editto del 313 o 314, con cui l’imperatore romano Costantino avrebbe affermato non solo il primato spirituale della chiesa di Roma su tutti i sacerdoti del mondo e in particolare sulle chiese patriarcali orientali (Antiochia, Alessandria d’Egitto, Costantinopoli, Gerusalemme), ma anche la superiorità del potere papale su quello imperiale, al contempo assegnando al pontefice “tutte le province, palazzi e distretti della città di Roma e dell’Italia e delle regioni occidentali” – in sostanza, tutto quello che sarebbe poi diventato l’Impero Romano d’Occidente (da ciò l’appellativo di “donazione”).
La leggenda su questa donazione (mai avvenuta) si diffuse già a partire dal IV secolo d.C., e la copia più antica del falso documento è inclusa nei cosiddetti Decretali dello Pseudo-Isidoro del IX secolo: raccolta che di testi falsi ne contiene parecchi, per inciso. Resta il fatto che la presunta donazione di Costantino alla chiesa di Roma continuerà a giustificare le ingerenze temporali del papato per tutto il Medioevo, e solo nel XV secolo se ne accerterà l’infondatezza: uno dei primi a sollevare dubbi sull’autenticità del documento è Nicola Cusano (filosofo e umanista, nonché cardinale), ma sarà poi Lorenzo Valla nel 1440 a dimostrarne definitivamente, con metodo filologico, la falsità, nell’opuscolo De falso credita et ementita Constantini donatione. La chiesa, tuttavia, continuerà a difendere l’autenticità della donazione ancora per molti secoli, tanto che l’opera di Valla nel 1559 viene inserita nell’indice dei libri proibiti. Di seguito riportiamo un passaggio della parte introduttiva al testo di Valla, da cui emerge chiara la vena polemica che anima il suo lavoro di fact checker ante litteram.
“Mi accorgo che si aspetta ormai di sapere qual delitto io imputi ai romani pontefici: un delitto, per vero, grandissimo commesso o per supina ignoranza o per sconfinata avarizia, che è una forma di soggezione a idoli, o per vano desiderio di dominare, cui sempre si accompagna la crudeltà. Essi, per tanti secoli, o non compresero la falsità della Donazione di Costantino o crearono essi stessi il falso; altri, seguendo le orme degli antichi pontefici, difesero come vera quella donazione che sapevano falsa, disonorando, così, la maestà del papato, la memoria degli antichi pontefici, la religione cristiana e causando a tutto il mondo stragi, rovine, infamie.”
Medioevo ed età moderna
XII-XVII sec. – Il regno del Prete Gianni
Nella prima metà del XII secolo d.C. circolava voce dell’esistenza di un regno cristiano in Oriente, forse basata sul relativo successo della predicazione della chiesa nestoriana in quelle aree e sulla diffusione, nei secoli precedenti, di un testo apocrifo, gli Atti di Tommaso, in cui si narrava della predicazione dell’apostolo Tommaso in India (testo sconfessato dalla chiesa e poi dichiarato eretico al Concilio di Trento). La prima volta che si fa menzione di un certo Prete Gianni come sovrano di tale regno è nel 1145, in una testimonianza di un vescovo siriano, Ugo di Gabala: questi afferma che un “certo Gianni”, al contempo re e sacerdote, sarebbe venuto in aiuto della Chiesa di Gerusalemme, sconfiggendo i medi e i persiani che la stavano all’epoca minacciando; il fantomatico Prete Gianni sarebbe stato un discendente, secondo Ugo, nientemeno che dei re magi, e il suo regno si sarebbe trovato appunto in estremo Oriente.
Queste voci trovano una formulazione precisa in una lettera che nel 1165 il sedicente Prete Gianni invia a Manuele I Comneno, Imperatore romano d’Oriente: in questa missiva, il Prete Gianni tratta con condiscendenza mista a disprezzo l’imperatore bizantino, e si prodiga in una lunga descrizione del proprio regno, che offre un compendio dell’intero immaginario medievale. I toni sono volutamente esagerati e trionfalistici, i contenuti assolutamente incredibili: si tratta naturalmente di un falso, nato forse come scherzo intellettuale, forse come manovra politica a favore di Federico Barbarossa, alla cui agenda politica i contenuti della lettera risultavano congeniali. Per una divertente e assai documentata ricostruzione narrativa della vicenda, è utile e sempre piacevole la lettura del romanzo Baudolino di Umberto Eco (Bompiani, 2000).
Quale che ne sia stata l’origine, la falsa missiva cementò definitivamente la voce sull’esistenza di un grande regno cristiano in Oriente: benché la reazione nelle coorti dell’epoca fosse minima (il papa Alessandro III nel 1177 si limitò a inviare una lettera al sedicente Prete Gianni, a cui naturalmente non fu mai data risposta), le testimonianze sul fantasioso personaggio nei secoli successivi si moltiplicarono. Ne ritroviamo dunque menzione in molti testi letterari successivi: Il Milione di Marco Polo (1299), Guerrin Meschino di Andrea da Barberino (1410), Orlando Furioso di Ludovico Ariosto (1516), La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso (1559-1575), Molto rumore per nulla di William Shakespeare (1598-1599), Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes (1605-1615), per citarne solo alcuni.
In un libro di viaggi (nuovamente immaginari, ma spacciati come veri) assai popolare nel XIV secolo, I viaggi di Mandeville (1357-1371), l’autore racconta di avere visitato il regno del Prete Gianni e ne descrive le meraviglie, riprendendo molti dei contenuti della lettera del 1165, ma suggerendo che si trovi in Africa e non in Asia. Da allora, è qui che più spesso verrà immaginato o cercato questo reame inesistente, in particolare in Etiopia: sia Ariosto che Tasso individuano in questa regione il mitico regno cristiano, e dicono che Prete Gianni ora si fa chiamare Senapo.
Non si deve però pensare che le fantasie sul regno del Prete Gianni si limitassero a opere letterarie: nel XII e XIII secolo era frequente che cronisti e dignitari scambiassero orde mongole per gli eserciti del fantomatico sovrano cristianissimo (con conseguenze talvolta tragiche), mentre ancora nel XV secolo i regnanti europei, che avevano iniziato a intrattenere rapporti diplomatici e commerciali con il Negus etiope, insistevano a chiamarlo “Prete Gianni”, nonostante le ripetute smentite del diretto interessato. Il che dimostra come le false notizie possano resistere per secoli a ogni tentativo di smentita, anche in assenza di tecnologie digitali che ne facilitino la diffusione.
1119-1616 d.C. – Dai Templari ai Rosacroce
I cavalieri Templari, il cui nome ufficiale era “Pauperes commilitones Christi templique Salomonici”, sono stati un ordine cavalleresco assolutamente reale, nato intorno al 1119 d.C. con la missione dichiarata di proteggere l’incolumità dei numerosi pellegrini che si mettevano in viaggio verso la Terra Santa.
I Templari ebbero una storia lunga, complessa e avventurosa, che si concluse in modo tragico: venuta meno la loro funzione originaria con la definitiva perdita di Gerusalemme da parte delle milizie cristiane, i Templari nella seconda metà del XIV secolo erano mal visti in Europa, anche a causa delle loro ingenti ricchezze. Proprio per impadronirsi di tali beni, Filippo IV il Bello, re di Francia, prima fece diffondere voci infamanti sull’ordine, i cui membri venivano accusati di rinnegare Cristo, sputare sulla croce, avere fra loro rapporti carnali e baciare il sedere a idoli pagani (fra altre iniquità); poi ne ordinò l’arresto, nel 1307, ed estorse a molti cavalieri la confessione dei crimini a loro imputati, con minacce e torture.
Il papa, Clemente V, da poco trasferitosi ad Avignone e in posizione di sudditanza rispetto al monarca francese, trovò conveniente non opporsi a tali eventi, e nel 1312 dissolse l’ordine: buona parte dei beni dei Templari furono trasferiti a un altro ordine cavalleresco cristiano, gli Ospedalieri, ma Filippo riuscì comunque ad aggiudicarsene una fetta. Dante nel Purgatorio (XX, 91-93) condanna l’avidità di tale gesto, pur senza nominare direttamente Filippo: “Veggio il novo Pilato sì crudele, /che ciò nol sazia, ma sanza decreto/portar nel Tempio le cupide vele”.
Fin qui la storia, per quanto intricata. Ma le trame politiche e la fine tragica che caratterizzarono l’ordine dei Templari erano destinate ad accendere la fantasia per molti secoli a venire: in particolare, all’inizio del XVII iniziano a circolare in Europa alcuni manifesti di una misteriosa Confraternita dei Rosacroce. Il più famoso di questi testi è l’ultimo, nel 1616, le Nozze chimiche di Christian Rosenkreutz, ad opera del teologo tedesco Johannes Valentinus Andreae. Si tratta di opere esoteriche, presumibilmente scritte per indicare ai credenti luterani una via di perfezionamento religioso di carattere mistico: purtroppo, i testi vennero invece presi alla lettera, convincendo molti dell’effettiva esistenza dei Rosacroce. Le smentite dello stesso Andreae, il quale si affannava a spiegare che i Rosacroce erano stati solo un ludibrium, un gioco intellettuale, non ebbero effetto (come spesso capita in casi simili): anzi, molti le presero come un segno che l’ordine esisteva davvero, e si dava da fare per celare la propria esistenza.
I Templari non venivano esplicitamente richiamati nella mistica rosacrociana illustrata nei primi manifesti, ma ormai la caccia ai collegamenti segreti era scattata: parlare di mistica cristiana inevitabilmente porta a parlare del santo Graal, e dal Graal alla missione dei Templari il passo è breve. Così nei secoli successivi l’inesistente Confraternita dei Rosacroce fu spesso descritta come discendente dei Templari e continuazione della loro missione, talvolta prendendo per buone le false accuse montate contro di loro da Filippo il Bello, ma dandone una lettura misticheggiante ed esoterica.
Il diffondersi della massoneria, a partire dal XVIII secolo, complicò ulteriormente le cose: molti ordini massonici si dichiararono (e si dichiarano tuttora) prosecuzione dell’opera rosacrociana, a dispetto del fatto che i Rosacroce, a fronte delle prove storiche, non sono mai esistiti, quindi sembra difficile proseguirne l’opera. Sugli intrecci fra storia e fantasia che caratterizzano il complicato triangolo fra Templari, Rosacroce e massoni, resta imprescindibile la lettura del romanzo di Umberto Eco, Il pendolo di Foucault (Bompiani, 1988), in cui si illustrano mirabilmente i molti modi in cui la disinformazione può nutrirsi di fatti veri, manipolandone abilmente il contesto interpretativo.
XVII-XVIII sec. – L’isola della California, un caso di disinformazione geografica
I primi colonizzatori spagnoli di quella che oggi costituisce la California messicana (più precisamente, gli odierni stati di Bassa California e Bassa California del Sud) sbarcarono nella metà iniziale del XVI secolo nella parte più meridionale del territorio, in corrispondenza di quella che oggi è la cittadina di La Paz. Si tratta di una zona in cui la California appare, da chi vi arriva via mare, in tutto e per tutto simile a una grande isola, e tale dev’essere sembrata anche a quei navigatori spagnoli: lo dimostra il nome stesso dato alla regione, California, ispirato a un poema epico all’epoca assai popolare fra i conquistadores, Las Sergas de Esplandián (“Le avventure di Esplandián”), scritto da Garci Rodríguez de Montalvo e pubblicato nel 1510. In quell’opera di fantasia si parla di un’isola di California, collocata a ovest delle Indie (quindi, in effetti nel Pacifico) e descritta in modi tali da eccitare l’immaginazione e le speranze di qualunque avventuriero che si rispetti: “Nella parte occidentale delle Indie c’è un’isola chiamata California che è quanto v’è di più vicino al Paradiso in Terra. I suoi abitanti sono donne dalla pelle nera, senza un singolo uomo, perché vivono alla maniera delle Amazzoni. Sono belle, con corpi robusti, fiero coraggio e grande forza. La loro isola è la più formidabile del mondo, con scogliere a picco e coste rocciose. Le loro armi sono tutte d’oro, come le briglie che usano per domare le bestie selvagge, perché l’unico metallo sull’isola è l’oro.” Insomma, fra belle vergini nere e fiumi d’oro, è facile capire perché ai primi esploratori spagnoli il nome California sia sembrato benaugurale; ma tale nome dimostra anche la loro convinzione di essere approdati su un’isola.
Tuttavia, bastano pochi anni agli spagnoli per accorgersi dell’abbaglio: nel 1539 il navigatore Francisco de Ulloa si spinge via nave verso nord fino alla foce del fiume Colorado, dimostrando la natura peninsulare della zona, successivamente confermata da spedizioni lungo il fiume stesso. Di conseguenza, le mappe prodotte nella seconda metà del XVI secolo, a cominciare da quelle di cartografi celebri come Mercatore e Ortelius, rappresentano la California correttamente come una penisola, pur insistendo nel denotarla col nome di un’isola letteraria – del resto, il nome era destinato a rimanere.
Poi, però, succede un pasticcio: di colpo, nel XVII secolo la California inizia a venire rappresentata come un’isola, e lo sbaglio perdura per buona parte del XVIII secolo, quando la sua natura insulare o meno diviene oggetto di accese dispute fra i geografi europei. La più antica versione di questo errore cartografico a noi pervenuta è del 1622: si tratta di una mappa di Michiel Colijn, che poi servirà da ispirazione alle decine di successive repliche e variazioni sul tema della “California come isola”. Di questo straordinario campionario di mappe sbagliate esiste una magnifica collezione, pazientemente raccolta da Glen McLaughlin, investitore e filantropo, e successivamente donata alla Stanford University, oggi accessibile a tutti in formato digitale, qui: https://exhibits.stanford.edu/california-as-an-island
Esistono varie teorie sulla genesi di questo errore cartografico, che vanno dallo sbaglio in buona fede al complotto spagnolo per far avere ai rivali europei mappe sistematicamente sbagliate, passando anche per interessanti ipotesi geopolitiche: considerare la California un’isola, infatti, rendeva vane le pretese coloniali inglesi su quel territorio, avanzate dopo lo sbarco di Francis Drake nel 1579 a Nuova Albione, nei pressi di quella che oggi è Point Reyes. Accettando l’ipotesi insulare, Drake sarebbe sbarcato sulla stessa “isola” dove erano già arrivati gli spagnoli oltre mezzo secolo prima, garantendo loro priorità temporale alla colonizzazione e invalidando automaticamente qualunque diritto gli inglesi volessero vantare.
Quale che ne sia stata l’origine, occorre riflettere sul modo in cui questo falso cartografico si è riprodotto su così vasta scala e per così tanto tempo. A esplorare quei territori sono conquistatori, navigatori e commercianti, ma poi la gran parte delle mappe vengono realizzate in Europa, da cartografi con sede a Londra, Parigi, Amsterdam, Venezia, i quali non hanno esperienza diretta dei luoghi che disegnano, e il più delle volte si basano su mappe precedenti: il che senz’altro favorisce il cristallizzarsi dell’errata rappresentazione insulare della California, attraverso calchi successivi. Inoltre, buona parte del pubblico di tali rappresentazioni è costituito non da viaggiatori e residenti dei luoghi descritti, interessati molto all’accuratezza e poco ai fronzoli, bensì da intellettuali e curiosi che mai si muoverebbe dall’Europa, e che su quelle mappe di mondi lontani vogliono viaggiare solo con l’immaginazione. A costoro, la presenza di un’isola della California, coerente con i vagheggiamenti romanzeschi di Montalvo, appare senz’altro più adeguata dello strano disegno di una penisola stretta e contorta, di cui non vi era traccia nell’immaginario collettivo.
Per cancellare questo equivoco ci vogliono circa 150 anni: a inizio del XVIII secolo è decisivo il ruolo dei gesuiti, con le spedizioni prima di un missionario e cartografo originario della Val di Non in Trentino, Padre Eusebio Francesco Chini (1698-1706), poi di altri frati intrepidi, fra cui Juan de Ugarte (1721) e Ferdinand Konščak (1746), i quali documentano ampiamente la natura peninsulare della California e la ribadiscono presso i cartografi europei. Evidentemente non basta, però, perché nel 1747 Ferdinando VI di Borbone, Re di Spagna e quindi legittimo “proprietario” della zona in questione, si sente in dovere di emanare un regio decreto in cui si dichiara, testualmente, che “la California non è un’isola”. Ma si sa, le smentite ufficiali non bastano a convincere gli scettici, e a volte finiscono per fomentarne le fantasie: “Se persino il Re di Spagna si scomoda a negare, dev’esserci sotto qualcosa di grosso…!”. È solo con le ulteriori spedizioni di Juan Bautista de Anza, fra il 1774 e il 1776, che anche gli ultimi irriducibili insularisti se ne fanno una ragione, e la verità geografica sulla California può dirsi ristabilita – almeno in Europa, mentre in altre zone del mondo l’errore riemergerà anche molto più tardi (ancora nel 1865, una mappa giapponese delle Americhe disegnava la California come un’isola).
Età contemporanea
1814 – La finta morte di Napoleone Bonaparte e la speculazione alla borsa di Londra
La mattina del 21 febbraio 1814 un certo colonnello du Bourg si presenta a Dover, sulle coste inglesi, come aiuto di campo di Lord Cathcart, ambasciatore inglese in Russia. Du Bourg annuncia la morte di Napoleone Bonaparte e la restaurazione dei Borboni come sovrani di Francia, il che porrebbe fine alla guerra all’epoca in corso fra le potenze alleate (la cosiddetta Sesta Coalizione, di cui l’Inghilterra era parte integrante) e l’impero napoleonico. La notizia viene immediatamente riferita all’Ammiragliato di Londra via telegrafo, e lo stesso du Bourg si mette in viaggio verso la capitale, fermandosi più volte lungo la strada per annunciare la lieta novella. Quello stesso giorno, tre militari vestiti come ufficiali francesi vengono visti festeggiare a Londra, per celebrare il ritorno dei Borboni al potere e la morte di Napoleone.
Queste notizie hanno un immediato effetto sulla borsa londinese, in vista degli effetti positivi che la fine della guerra avrebbe avuto sull’economia inglese: in particolare, il valore di alcune obbligazioni del governo sale rapidamente in poche ore, e chiunque ne venda ingenti quantità al picco del loro valore realizza enormi guadagni. Senonché, già poche ore dopo, le notizie riportate da du Bourg si rivelano false: Napoleone è vivo e vegeto, e la guerra continua (finirà pochi mesi dopo, ad aprile 1814, con la resa di Napoleone e la firma del trattato di Fontainebleau, che ne sancisce l’abdicazione e l’esilio all’isola d’Elba). Sospettando un caso di frode fiscale, i funzionari della borsa inglese avviano un’indagine: si scopre così che il presunto “colonnello du Bourg” è in realtà un impostore, trattandosi in realtà di un aristocratico prussiano di nome Charles Random de Berenger. Costui, oltre a impersonare il fantomatico colonnello e uno degli ufficiali francesi impegnati a celebrare la morte di Napoleone a Londra, è stato visto, il giorno stesso della frode, entrare in casa di Lord Thomas Cochrane, celebre ufficiale della marina inglese e membro del Parlamento. Senonché proprio Lord Cochrane, insieme a suo zio, Andrew Cochrane-Johnstone, hanno guadagnato ingenti somme dalla vendita dei titoli inflazionati dalle false notizie sparse de Berenger, lo stesso giorno in cui questi ha fatto visita a casa Cochrane.
L’indagine porta alla condanna degli imputati: benché molti dubbi rimangano tutt’ora sull’effettiva colpevolezza di Lord Cochrane, appare invece assodata la vocazione alla truffa di suo zio, Andrew Cochrane-Johnstone, che infatti fugge dal paese non appena viene resa nota la condanna, solo per ritrovarsi coinvolto in guai simili anche in Francia, molti decenni dopo. Quello che però interessa oggi non è tanto chi abbia effettivamente perpetrato questa truffa, bensì l’utilizzo della disinformazione per influenzare i mercati e dunque generare ingenti guadagni di tipo speculativo: si tratta infatti di un importante “motore di disinformazione”. Il valore dei titoli in borsa è significativamente influenzato dalle informazioni disponibili sul contesto socio-economico, sui mercati e sui titoli stessi: manipolare tale valore con manovre di disinformazione può produrre guadagni estremamente significativi, nonché importanti conseguenze politiche, come il caso della falsa morte di Napoleone Bonaparte illustra molto bene.
1903 – I Protocolli dei Savi di Sion e la disinformazione antisemita
Nei primissimi anni del XX secolo, in Russia si diffonde un documento che si presenta come una lista di istruzioni su come controllare i destini del mondo, manipolando governi, economie e popolazioni: si tratta dei celebri Protocolli dei Savi di Sion, i cui autori sarebbero i vertici di una cospirazione ebraica su scala mondiale (i Savi di Sion, appunto). Interessante il carattere metateorico del complotto: benché i contenuti ricalchino molti luoghi comuni del cospirazionismo, il testo assume che chi legge sia già al corrente di altri complotti passati e presenti (templari, rosacroce, illuminati, massoni), che però vengono qui rivelati come trame specifiche degli onnipotenti Savi di Sion, i quali sarebbero i burattinai ultimi di ogni cospirazione mai avvenuta in precedenza.
Naturalmente, si tratta di un falso documentale. Il testo vede la luce negli ambienti dell’Ochrana, la polizia segreta zarista, con intenti antisemiti e reazionari, e l’autore a cui viene attribuita l’effettiva stesura è Sergej Aleksandrovič Nilus, scrittore e mistico russo. Molto presto il libro viene sfruttato anche in chiave antibolscevica, presentando le istanze rivoluzionarie russe come un elemento nella trama dei Savi di Sion: lo stesso Hitler più tardi li evocherà in tal senso, mentre in Russia, successivamente alla rivoluzione del 1917, il solo possesso del testo viene punito, in quanto forma di propaganda antisovietica. La storia della composizione del libro è piuttosto complessa, in quanto largamente basato su calchi e plagi di opere precedenti, anche di carattere narrativo e satirico: una bella ricostruzione della genesi dei Protocolli, romanzata ma fondata su accurate ricerche storico-filologiche, è stata proposta da Umberto Eco, nel suo romanzo Il cimitero di Praga (2010).
Dal punto di vista della storia della disinformazione, i Protocolli sono significativi sia per il loro prolungato e diffuso successo come strumento propagandistico, sia come dimostrazione della relativa inefficacia delle smentite e del debunking, quando si ha a che fare con documenti falsi che offrono informazioni congeniali al pubblico a cui si rivolgono. La falsità dei Protocolli, infatti, viene accertata pubblicamente molto presto in una serie di articoli sul Times e sulla Frankfurter Zeitung, pubblicati fra il 1921 e il 1924: questo, tuttavia, non impedisce al testo falso di continuare a circolare e di essere usato per giustificare politiche antisemite, a cominciare dalla Shoah durante il regime nazista. Tutt’oggi, i Protocolli vengono trattati come un documento autentico, a dispetto della loro conclamata falsità, da numerosi movimenti di estrema destra in vari paesi del mondo: fra gli altri, Forza Nuova e Casa Pound in Italia e Alba Dorata in Grecia. Inoltre, i Protocolli sono spesso trattati come fonte storica attendibile, e come tali inclusi nel curriculum scolastico, in paesi islamici, quali l’Arabia Saudita e l’Iran. Più in generale, il testo viene periodicamente riproposto online come “incredibile scoperta di trame segrete”: benché oggi sia abbastanza diffusa la consapevolezza della sua falsità, la circolazione in rete sfrutta la complessità stessa delle informazioni oggi disponibili per dare nuovo vigore a questa bufala trita e ritrita (poiché qualcuno che non ne ha mai sentito parlare lo si trova sempre, continua a esistere un’ampia platea di soggetti vulnerabili a questa particolare forma di disinformazione).
1938 – L’invasione radiofonica di Orson Welles
Il 30 ottobre 1938, l’emittente radiofonica CBS manda in onda una trasmissione destinata a passare alla storia: l’adattamento del romanzo La guerra dei mondi di H. G. Wells, arrangiato da Orson Welles, che all’epoca aveva solo 23 anni. Benché l’episodio sia parte di una trasmissione settimanale, dedicata appunto all’adattamento radiofonico di classici della letteratura, e sia indicato come tale nella programmazione dell’emittente, le scelte di arrangiamento di Welles, che presenta il resoconto dell’invasione come una serie di annunci radiofonici di emergenza, inseriti a metà di altri programmi, e l’ambientazione degli eventi negli Stati Uniti, anziché in Inghilterra come nel romanzo di Wells, rendono la narrazione particolarmente realistica e convincente, tanto da suscitare effettiva preoccupazione in molti ascoltatori. I quotidiani del giorno dopo riprendono la notizia e la rielaborano in chiave sensazionalistica, mentre lo stesso Welles cavalca la notorietà ottenuta dal programma: le sue scuse pubbliche in merito all’accaduto (disponibili online, ad esempio qui: https://www.youtube.com/watch?v=8vbYyDh-BRI) sono a loro volta un divertente pezzo di teatro. Si crea così la leggenda della trasmissione che convinse la popolazione degli Stati Uniti di essere vittima di un attacco extraterrestre.
In realtà, ricerche successive hanno verificato che l’effetto del programma di Welles sulla popolazione fu assai meno eclatante di quanto venne riportato dai giornali dell’epoca: innanzitutto, la percentuale di cittadini statunitensi che effettivamente seguirono la trasmissione era piuttosto ridotta, si calcola intorno al 2%; di questi, solo una minima parte credettero che si trattasse di fatti reali, e anche costoro si preoccuparono per lo più di un attacco tedesco (si era nel 1938 e la guerra era un’eventualità molto concreta) o una catastrofe naturale, non fantasiose invasioni marziane; infine, le scene di panico collettivo a cui ci hanno abituato le narrazioni successive non si verificarono affatto, e la reazione più comune al programma, da parte di chi vi prestò fede come notizia reale, fu di contattare l’emittente radiofonica per chiedere spiegazioni. Insomma, la brillante scelta di sceneggiatura di Welles venne usata per costruire una metabufala, cioè una falsa notizia (gli Stati Uniti sono stati gettati nel panico da un programma radio) su una falsa notizia (è in corso un’invasione da Marte).
Le ragioni di questa deriva sono molte, alcune di carattere personale (come si è detto, sia Welles che i media erano interessati a gonfiare gli eventi), altre di natura sociologica: la radio, infatti, costituiva all’epoca una relativa innovazione nel panorama dei mass media, e come tale attirava le profezie di sciagura e di timori di imbarbarimento dei costumi che sempre si accompagnano alle innovazioni tecnologiche in materia di informazione. Attribuire allo sceneggiato radiofonico di Welles effetti cataclismatici sull’opinione pubblica, quindi, era abbastanza in linea con il sentire di molti critici della radio.
1984 – Le teste di Modigliani a Livorno: un caso di bufala artistica
A maggio del 1984 viene inaugurata a Livorno una mostra dedicata ad Amedeo Modigliani, illustre artista originario della città toscana, in occasione del centenario della sua nascita. L’esibizione vuole dare particolare risalto al Modigliani scultore, ma gli organizzatori riescono a ottenere solo 4 delle 26 opere all’epoca attribuite all’autore: la mostra, nata con grandi ambizioni, rischia di rivelarsi un flop. Per cercare di creare interesse intorno all’evento, gli organizzatori allora insistono affinché si cerchi conferma di una diceria, secondo la quale Modigliani, nel 1909, avrebbe gettato nel Fosso Reale di Livorno alcune sue sculture, dopo che queste erano state aspramente criticate da alcuni artisti suoi amici. Il canale viene dragato, con tanto di riprese televisive dell’evento, e il 24 luglio 1984 effettivamente vengono ritrovate tre teste scolpite nello stile di Modigliani, che gran parte della critica (con alcune eccezioni, fra cui i critici d’arte Federico Zeri e Carlo Pepi) considerano autentiche: grande grancassa mediatica per l’eccezionale scoperta, dunque, e immediata esposizione delle tre opere alla mostra dedicata all’artista e ancora in corso.
Un mese dopo, però, tre studenti universitari rivelano al settimanale Panorama che le teste sono una beffa e mostrano una foto che li ritrae mentre ne realizzano una utilizzando un trapano Black&Decker (marca che in seguito sfrutterà la vicenda per fini pubblicitari, con lo slogan “È facile essere bravi con Black&Decker”). Di fronte all’incredulità della critica, i tre studenti realizzano nuovamente un’opera analoga, questa volta in diretta televisiva. A questo punto, sollecitato anche dalle richieste di Federico Zeri, che all’autenticità delle opere non aveva mai creduto, si palesa anche l’autore degli altri due falsi: si tratta di un’artista livornese con un passato travagliato, Angelo Froglia, che dichiara di avere realizzato le due teste false non come burla, bensì per compiere “un’operazione estetico-artistica per verificare fino a che punto la gente, i critici, i mass-media creano dei miti”.
La vicenda delle false teste di Modigliani solleva interessanti questioni sui rapporti fra autenticità e valore artistico, nonché sui meccanismi estetici della critica d’arte e il ruolo dei media nel modularne gli esiti. Tuttavia, non si tratta affatto di un caso isolato: la creazione di false opere e false notizie in ambito artistico ha una lunga tradizione, con finalità talvolta di critica sociale, talvolta economiche, talvolta meramente umoristiche. Un caso di carattere letterario, precedente di un paio di secoli ai falsi Modigliani, riguarda la presunta “scoperta” dei perduti canti ossianici da parte di James Macpherson, che li diede alle stampe fra il 1760 e il 1765. Tali componimenti epici, in realtà assai poco legati alle tradizioni orali dei popoli gaelici e sostanzialmente inventati di sana pianta da Macpherson stesso, ebbero un’influenza decisiva sulla successiva letteratura romantica. Oggi piace pensare che ciò dipendesse esclusivamente dalla qualità letteraria dell’opera di Macpherson, ma ciò non toglie che illustri letterati romantici, fra cui Goethe, Wordsworth e Foscolo, guardassero all’opera come genuina espressione di un’antica tradizione epica, cosa che non era affatto.
1998 – Vaccini e autismo, la truffa di Wakefield
Nel 1998 appare sul Lancet, una delle più prestigiose riviste mediche al mondo, un articolo firmato da un medico britannico, Andrew Wakefiled, e da altri undici colleghi, in cui si presentano dati che suggeriscono una correlazione fra la somministrazione del vaccino trivalente contro morbillo, parotite e rosolia, e l’insorgenza di patologie come autismo e malattie infiammatorie croniche intestinali. La ricerca desta grande scalpore e porta a una netta riduzione della copertura vaccinale nel Regno Unito contro il morbillo, con conseguenze gravi e talvolta letali. Costituisce anche il punto di origine di una bufala medica che tuttora circola insistentemente in rete, secondo la quale i vaccini produrrebbero tutta una serie di effetti avversi, di cui le compagnie farmaceutiche e l’establishment sanitario da loro finanziato (il cosiddetto “Big Pharma”) vorrebbe tenere all’oscuro i comuni cittadini.
Eppure, lo studio di Wakefield non è mai stato replicato, nonostante decine di tentativi, e un’indagine avviata dall’inchiesta del giornalista britannico Brian Deer per il Sunday Times ha rivelato manipolazioni dei dati e conflitti di interessi nello studio di Wakefield, il quale aveva ricevuto finanziamenti da uno studio legale per fornire sostegno scientifico a una serie di cause che aveva in corso contro le case farmaceutiche produttrici dei vaccini. Al termine di accertamenti durati anni e condotti col massimo rigore, Wakefield è stato radiato dall’albo dei medici inglese e lo studio è stato ritirato dalla rivista Lancet, che ne ha denunciato il carattere fraudolento. Tuttavia, esso continua a fare parte dell’armamentario ideologico dei movimenti no-vax, anche grazie al sostegno dato alle tesi di Wakefield da altre voci nella comunità medica, isolate ma autorevoli: è il caso per esempio di Luc Montagnier, premio Nobel 2008 per la medicina, ma anche noto difensore di tesi pseudoscientifiche (ad esempio sulla cosiddetta “memoria dell’acqua”) e teorie del complotto (ad esempio durante la pandemia di Covid-19, quando ha sostenuto la tesi di una cospirazione cinese ai danni del mondo).
Rispetto alle dinamiche della disinformazione medica, questo episodio dimostra la fragilità dei modelli di comunicazione scientifica basati sul principio di autorità. Il Lancet è senza alcun dubbio una rivista autorevole in campo medico, ed è difficile sostenere che un premio Nobel in medicina non abbia voce in capitolo su questioni sanitarie. Ma nulla di tutto questo deve essere considerato decisivo, quando si tratta di stabilire l’attendibilità di una scoperta scientifica: ciò che conta è il rigore metodologico e la trasparenza nella raccolta e nell’analisi dei dati, e la verificabilità e replicabilità dei risultati. Se uno studio è condotto in modo errato, le conclusioni a cui arriva sono prive di valore, a prescindere dalle qualifiche di chi lo ha condotto. Se una tesi scientifica si basa su dati parziali, non verificati, o addirittura inventati, tale tesi va rifiutata, chiunque sia a sostenerla. Di questi principi di buon senso scientifico, però, bisogna ricordarsi sempre, non solo quando si tratta di criticare i Wakefield e i Montagnier di questo mondo: chi abbraccia un modello oracolare della scienza ogni volta che fa comodo farlo (“Bisogna dare retta agli scienziati perché sono scienziati!”) sta seminando vento, e si ritroverà inevitabilmente a raccogliere tempesta.
2017 – QAnon e il nuovo complottismo
Concludiamo questa breve carrellata di casi celebri di disinformazione nella storia umana con una delle incarnazioni più recenti del complottismo: la setta politica di estrema destra nota come QAnon, e le bizzarre teorie sostenute dai suoi affiliati. Il copione, ancora una volta, segue la trama del cospirazionismo più becero: non meglio precisati poteri occulti, qui ribattezzati Deep State, avrebbero preso il controllo della democrazia statunitense dai tempi dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy nel 1963, di cui naturalmente sarebbero stati mandanti e artefici, e ora ostacolerebbero in ogni modo Donald Trump e i suoi sostenitori, i quali avrebbero invece la sacra missione di scardinare questo malefico nuovo ordine mondiale (QAnon infatti si lega a una precedente teoria del complotto statunitense, incentrata appunto su un ipotetico New World Order); come di consueto in simili narrazioni, il perfido Deep State sarebbe coinvolto in reti di pedofilia a livello globale, oscure pratiche ebraiche, cabale occulte, tutto al fine di mantenere il dominio mondiale.
A questo si aggiungono dettagli con vari gradi di fantasia: uno di quelli più surreali riguarda la convinzione che il figlio di JFK, John Fitzgerald Kennedy Jr., non sia morto nell’incidente aereo in cui perse la vita anche la moglie, nel 1999, ma sia in realtà ancora vivo e nascosto sotto mentite spoglie, per proteggerlo dalle oscure trame del Deep State e consentirgli un giorno, grazie all’opera salvifica di Trump e di parte delle forze armate statunitensi, di tornare alla Casa Bianca e inaugurare una nuova era di pace e giustizia.
Se i contenuti della teoria del complotto di QAnon fanno sorridere, il successo di simili baggianate e le conseguenze possono produrre destano invece sincera preoccupazione. Uno dei casi più eclatanti riguarda l’assalto al Campidoglio, il 6 gennaio 2021, fomentato dalla convinzione che gli esiti delle elezioni presidenziali appena concluse fossero stati manipolati a danno di Donald Trump: tesi mai dimostrata, e anzi ampiamente smentita dal riconteggio delle schede, di cui tuttavia i seguaci di QAnon continuano a dirsi convinti – come del resto lo stesso Trump, che con il movimento ha sempre flirtato in modo estremamente ambiguo. Tutti ricorderanno, in prima linea fra i protagonisti dell’invasione del Campidoglio, un individuo col viso dipinto con i colori della bandiera statunitense, in testa un cappello di folta pelliccia con le corna da vichingo, il torso nudo coperto da tatuaggi: si tratta di Jake Angeli, noto alle cronache come “sciamano di QAnon”, in quanto membro dichiarato del gruppo politico e presenza fissa ai comizi di Trump.
Rispetto alle dinamiche della disinformazione, QAnon mostra un aggiornamento dei metodi di costruzione della teoria del complotto: non nei contenuti, quelli sempre noiosamente uguali al consueto canovaccio, bensì nella modalità con cui si stimola la curiosità dei potenziali membri della setta. Il mittente dei messaggi anonimi che hanno dato origine al movimento, nel 2017 sulla piattaforma online 4chan, si firma appunto con lo pseudonimo Q (da ciò il nome della setta, per metonimia). Come ha fatto notare lo scrittore Wu Ming 1 (anche lui pseudonimo, in quanto membro del collettivo Wu Ming, ma di identità nota: Roberto Bui), “Q non racconta niente: manda messaggi stringati, enigmatici, che gli utenti di 4chan chiamano ‘briciole’, come quelle di Pollicino. Le briciole non sembrano avere alcun senso, o meglio, sono aperte a qualunque interpretazione: ‘Il futuro prova il passato’; ‘Impara a leggere la mappa’; ‘Il Padrino III’. Oppure acronimi e numeri: ‘Dnc -> (Sr 187) (Ms-13) -> Dws’, oltre al ricorrere del numero 17’ (tratto da un’inchiesta in due parti sul complottismo pubblicata su Internazionale, https://www.internazionale.it/reportage/wu-ming-1/2018/10/15/teorie-complotto-qanon). L’elemento innovativo in questa modalità comunicativa è stato sottolineato anche da altri, per esempio dallo scrittore Walter Kirn, il quale, descrivendo la strategia di Q in un articolo del 2018 per Harper’s Magazine, nota che “il pubblico delle narrazioni online non vuole leggere, vuole scrivere. Non vuole ottenere risposte, vuole andarle a cercare. Non vuole stare fermo ed essere intrattenuto, vuole essere mandato in missione. Vuole fare” (mia traduzione dall’originale inglese, https://harpers.org/archive/2018/06/the-wizard-of-q/).
Si tratta, in altre parole, di una gamification del cospirazionismo: il grande complotto segreto non viene più spiattellato ai quattro venti, bensì si seminano indizi e allusioni, messaggi cifrati che richiedono un lungo lavoro interpretativo per essere decodificati e che si prestano a molteplici letture, a beneficio di chi li riceve. Tutto questo eccita l’immaginazione dei potenziali seguaci della setta e garantisce una profonda soddisfazione personale a chi vi aderisce: se già è gratificante sentirsi depositari di una verità ignota alle masse, quanto più esaltante sarà scoprire tali segreti per propri meriti, con impegno e ingegno? Si tratta di un meccanismo psicologico assai efficace, come purtroppo dimostra il successo di pubblico di iniziative come QAnon.