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2021 il divario digitale in Italia

2021 il divario digitale in Italia

da | 21 Mag 2021 | divario digitale, Internet | 0 commenti

2021 il divario digitale in Italia. A partire dalla metà degli anni Novanta del secolo scorso, comincia a diffondersi la tesi secondo cui il mancato utilizzo di Internet possa dare luogo a una nuova forma di disuguaglianza sociale che si manifesta nel divario esistente fra gli information haves e gli havenots e che, pertanto, richiede l’elaborazione di specifiche politiche pubbliche volte a garantire effettive condizioni di accesso ad Internet.

Il 29 maggio 1996, un quarto di secolo fa rispetto alla data in cui si scrive, l’allora Vicepresidente Al Gore dell’amministrazione Clinton utilizzò l’espressione digital divide per indicare il divario esistente fra gli information haves e gli havenots nell’ambito del programma K-12 education (negli Usa si usa quest’espressione per indicare i 12 anni di educazione dalla prima elementare all’ultimo anno delle superiori, la cui durata è di 4 anni).

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L’attenzione che negli Stati Uniti d’America viene posta su questo aspetto è costante e una pietra miliare per l’educazione scolastica nel terzo millennio è stata posata negli Stati Uniti. Sia la Camera che il Senato, con un appoggio bipartisan e a larghissima maggioranza, hanno approvato l’Every Student Succeeds Act (ESSA). Questa legge, firmata dal Presidente Obama il 10 dicembre 2015, riconosce che l’informatica (computer science) è un soggetto fondamentale per l’educazione scolastica K-12. La legge indica l’informatica come un’abilità fondamentale per fornire a tutti gli studenti un’educazione bilanciata e adeguata al 21esimo secolo. Essa quindi entra, a pari merito con discipline più tradizionali (quali la madrelingua, la matematica, le scienze, solo per citarne alcune) nell’insieme delle materie che dovranno far parte dei programmi educativi che i singoli stati dovranno definire e che saranno obiettivo di programmi di sviluppo professionale degli insegnanti.

2021 il divario digitale in Italiapuoi scaricare l'Act del 2015 (pdf 392 pagine in inglese)

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E in Italia?

Dopo pochi mesi dal famoso pronunciamento di Al Gore, il digital divide oltrepassa l’Atlantico e sbarca in Europa e arriva anche in Italia. Nei convegni dedicati all’importanza della tecnologia di informatica e comunicazione, si comincia a parlare di questo tema, ma la maggior parte degli interventi tendeva a identificare il problema del digital divide come un problema dell’Africa. Strano ma è così.

In quegli anni lo sviluppo della rete e le sue implicazioni sullo sviluppo sociale e economico si trovava in una fase che potremmo definire rurale. Internet si stava diffondendo solo allora, perché negli anni precedenti era stata confinata al mondo universitario; nascevano i primi portali della pubblica amministrazione (Iperbole su tutti), ma la maggior parte della gente si connetteva con modem a 256Kbit, e d’altra parte i siti internet erano più semplici, con una grafica più povera, quasi totalmente privi di interazioni elettroniche quali: pagamenti di tasse o infrazioni, prenotazioni incontri con gli uffici, ecc….

Google non era ancora apparso sul mercato (4 settembre del 1998) e i motori di ricerca erano meno potenti e avevano nomi oggi un po’ dimenticati: Altavista, Yaooh e Virgilio per citarne alcuni; il numero di ricerche sulla rete e le mail inviate in quegli anni erano nulla rispetto ai volumi di oggi: attualmente 247 miliardi di mail al giorno e 3,5 miliardi di ricerche, su Google, sempre ogni giorno.

Telecom era ancora una società pubblica

Aggiungiamo inoltre che Telecom era ancora una società totalmente pubblica (avrebbe smesso di esserlo un anno dopo); e ci si chiederà che cosa c’entra la nazionalizzazione della Telecom con il digital divide? Una volta privatizzata la società di telecomunicazione ha inevitabilmente sposato le logiche del mercato, anche se in parte attenuate dall’obbligo del servizio universale. Questa clausola obbligava la Telecom a rendere disponibile il servizio voce in tutte le parti del territorio italiano (cosa che è stata rispettata) e ad assicurare una velocità minima di collegamento di 2 Mbits/sec; non solo questa clausola è stata spesso disattesa in alcune parti dell’Italia, ma oggi questo valore rischia di essere assolutamente al di sotto delle necessità, basti pensare che oramai in una gran parte delle case italiane si parla di connettività a 100 Mbit/sec e nei progetti di Open Fiber (Cassa Depositi e Prestiti) e Fibercop (TIM) si parla di Gbit al secondo.

Questa strategia asimmetrica sul territorio, legata a logiche di profitto, ha determinato la nascita di quelle zone (bianche o grigie) che, nel gergo, sono definite a fallimento di mercato. Di fatto uno studente che vive in una città (anche di medio piccole dimensioni) è oggi enormemente avvantaggiato rispetto ad un suo cugino che vive in un borgo in mezzo agli Appennini. La pandemia Covid-19 e la conseguente necessità di una didattica a distanza ha poi esasperato questo problema in un modo che è oggi sotto gli occhi di tutti.

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Il divario digitale è solo un problema di tecnologia?

Si direbbe, a questo punto, che il problema del divario digitale sia fortemente connotato da aspetti tecnologici; malauguratamente la situazione è più grave, abbastanza più grave; il digital divide è essenzialmente un problema culturale e quindi, probabilmente, più difficile da aggredire. Già nel periodo 85-95 il forte sviluppo di quello che allora si chiamava Office Automation (documenti e fogli elettronici per molto tempo) aveva messo in evidenza che esisteva una significativa parte di popolazione che non era in grado di dominare questa tecnologia e che ne era di fatto esclusa: i c.d. analfabeti di ritorno.

Ma se allora il problema era non essere capace di scrivere una relazione ed essere obbligato all’uso di una Olivetti Lettera 22 o di una brava segretaria, se il problema era non sapere usare Excel o Lotus123 e per i calcoli ricorrere ad una calcolatrice più o meno elettronica, ai giorni d’oggi il divario è molto più forte e a volte invalidante: forse non è particolarmente invalidante non saper fare acquisti su Amazon, ma non poter accedere, usando lo SPID, ai portali dell’INPS e della Agenzia delle Entrate, alla lunga può diventare un problema serio.

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Le varie forme del digital divide

Il digital divide ha tante forme. Tutte hanno il volto di un’esclusione dai benefici del progresso tecnologico e dell’innovazione. Digital divide, divario digitale. Comunque lo si chiami, il suo effetto è negativo per chi lo subisce. E lo è sempre di più man mano che il digitale assume un’importanza crescente per la società.

Chi è escluso dal digitale – per scelta o per caso fortuito – ne perde i vantaggi. Con un danno socioeconomico e culturale. E poiché chi è in digital divide – secondo gli studi, come Istat – è spesso di un ceto sociale già svantaggiato, entra in un circolo vizioso. Di crescente povertà ed esclusione. Cerchiamo di tracciarne i confini, per trovare anche le strade giuste per combattere il fenomeno.

Digital divide significa “divario digitale”, com’è noto. Cioè una situazione che divide la popolazione nell’accesso a internet. Una divisione tra chi ha accesso a internet e chi no. Questo parametro ha una valenza importante, perché evidenzia una sempre più grave disuguaglianza nell’accesso e nell’uso delle tecnologie.

L’effetto è che questa divisione mette in risalto la frattura che si frappone tra la parte della popolazione in grado di utilizzare queste tecnologie e la parte della popolazione che ne rimane esclusa. Ne deriva una grave discriminazione per l’uguaglianza dei diritti esercitabili online con l’avvento della società digitale. Il divario digitale, quindi è sempre più causa di un divario di altra natura: socioeconomico e culturale.

Tra le categorie più minacciate dall’esclusione digitale vi sono i soggetti anziani (cd. “digital divide intergenerazionale”), le donne non occupate o in particolari condizioni (cd. “digital divide di genere”), gli immigrati (cd. “digital divide linguistico-culturale”), le persone con disabilità, le persone detenute e in generale coloro che, essendo in possesso di bassi livelli di scolarizzazione e di istruzione, non sono in grado di utilizzare gli strumenti informatici.

Secondo la classificazione maggiormente accreditata in materia è possibile distinguere tre tipi di divario digitale: globale, sociale e democratico.

  1. il primo si riferisce alle differenze esistenti tra paesi più o meno sviluppati;
  2. il secondo riguarda le disuguaglianze esistenti all’interno di un singolo paese;
  3. il terzo focalizza le condizioni di partecipazione alla vita politica e sociale in base all’uso o meno efficace e consapevole delle nuove tecnologie.

A chi manca internet in Italia: i dati di copertura

In Europa il digital divide di primo livello, secondo la Commissione europea, è la mancata copertura di banda larga fissa ad almeno 2 Megabit (Adsl, cavo coassiale – che in Italia manca – o fixed wireless). In Italia questo dato di digital divide riguarda una popolazione di pochi punti percentuali. Meno dell’1 per cento secondo quanto riportano gli operatori (dati Desi 2018), ma ultime rilevazioni Agcom (più dettagliate, basate su 360mila sezioni censuarie) tendono a rivedere al rialzo questo dato: è il 5,6 per cento della popolazione circa a non avere copertura Adsl (dato che potrebbe dimezzarsi se includiamo la copertura fixed wireless access, di cui però non ci sono mappe ufficiali).

Più interessante il digital divide di secondo livello, ossia la mancata copertura banda ultralarga, sempre più necessaria per una connessione “adeguata” ai servizi internet. Anche qui i dati di copertura oscillano, per il 2018: quelli senza banda ultra larga sono tra il 20 e il 40 per cento della popolazione (dati degli operatori/EY, Mise e Agcom, che ha di nuovo le stime peggiori); perché cambia il sistema di calcolo e l’elaborazione delle mappe. In futuro si parlerà anche di digital divide di terzo livello, mancata copertura con fibra ottica nelle case, che in Italia riguarda meno del 20 per cento della popolazione (anche qui, le stime oscillano).

 

I dati sugli utenti banda larga

Quanto alla scelta di non avere una connessione internet, si vedano i dati Desi 2018 della Commissione. Secondo il Desi 2018, gli utenti di Internet sono il 69 per cento della popolazione (più 2 per cento rispetto all’anno prima), rispetto all’attuale media europea del 81% (in Danimarca si raggiunge il 95%). Sono stati registrati lievi aumenti nello shopping online (dal 41% degli utilizzatori di internet al 44%, contro una media europea del 68%), nell’utilizzo di eBanking (dal 42% al 43%, contro una media europea del 61%). Queste due applicazioni (ecommerce ed ebanking) sono prese dalla Commissione come cartina tornasole di un uso “evoluto” di internet, che pure in Italia è carente.

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Agcom, banda larga sia servizio universale

Inserire la connessione a Internet a banda larga tra gli obblighi del servizi universale, vale a dire la telefonia di base che deve essere disponibile a tutta la popolazione. E’ il tema dell’istruttoria a evidenza pubblica (e con il contributo di tutti i soggetti interessati) avviata dall’Agcom. Ad oggi, ricorda l’Autorità, Telecom Italia è l’operatore incaricato di fornire il servizio universale e l’attuale ambito di applicazione del servizio universale si basa su una connessione dati, necessaria per l’accesso a Internet, a banda stretta (ad esempio mediante modem a 56 kbps), “un livello evidentemente non più in linea con i fabbisogni minimi della popolazione servita”. Gli esiti della consultazione pubblica saranno trasmessi al Mise per le determinazioni di propria competenza. Nel 2015 gli accessi alla rete a banda larga hanno sfiorato i 15 milioni di linee, con una crescita di 540mila su base annua. Lo riferisce l’Agcom nell’Osservatorio trimestrale sulle comunicazioni. In particolare .... (continua a leggere aprile 2016)